“Il quadro realistico dell’impegno dello Stato nella lotta alla criminalità organizzata. Emotivo, episodico, fluttuante. Motivato solo dall’impressione suscitata da un dato crimine o dall’effetto che una particolare iniziativa governativa può esercitare sull’opinione pubblica”. Queste parole, pronunciate da Giovanni Falcone, sono presenti nel saggio “Cose di Cosa Nostra”, un libro che raccoglie venti interviste fatte tra marzo e giugno 1991 dalla giornalista francese Marcelle Padovani, incentrate sulla mafia siciliana come fenomeno criminale e sui tentativi di repressione messi in atto dal magistrato. Rileggendo le parole del saggio sull’impegno mancato, mutevole e oscillante, da parte dello Stato nella lotta alle mafie, ci si può porre la domanda su come si sia comportata nel tempo la letteratura, per sensibilizzare l’opinione pubblica e per combattere la criminalità organizzata. Esiste una letteratura antimafia? In che modo gli scrittori, i saggisti, gli intellettuali hanno scritto di mafia? In che modo hanno ricordato il sacrificio delle vittime? Quanti libri sono stati scritti? Quali?
Fare un elenco esauriente e articolato è impossibile. Per capire cosa nostra, le sue dinamiche, le violenze, i suoi codici, le contiguità e le connessioni con il potere, bisogna partire dal libro di Giovanni Falcone e Marcelle Padovani. Poi spaziare, estendere lo sguardo oltre il nostro orizzonte, anche oltre il nostro tempo presente. Partiamo dagli anni sessanta dell’Ottocento, quando Giuseppe Tomasi di Lampedusa racconta, nel suo Gattopardo, quello che accadde in Sicilia durante lo sbarco dei Mille. Il principe di Salina pronuncia una frase sibillina, diventata poi famosissima ed emblematica di come vanno, ancora oggi, le cose nel nostro Paese: “Bisogna che tutto cambi, affinché tutto rimanga com’è”. Il mondo nobiliare (che non era stato capace di risollevare le sorti dell’isola), insieme al mondo contadino e lavoratore, era insidiato mortalmente dai tanti Calogero Sedara in tutta la Sicilia: violenti, goffi, ignoranti, privi di qualunque ideale che non fosse far denaro e sempre più denaro con ogni mezzo.
È inutile affermare che Sedara è il tipico mafioso a capo di numerosi interessi intessuti con altri individui senza scrupoli, capace di utilizzare il mondo della politica, uomo scaltro e pericoloso, tanto da ricorrere al crimine se necessario. Tomasi di Lampedusa, nel suo romanzo storico, parla di mafia senza mai nominarla esplicitamente. Sarà Leonardo Sciascia, ne “Il giorno della civetta”, a descriverla, a denunciarla, a raccontare l’espansione di cosa nostra fuori dai confini regionali. Sarà Sciascia, attraverso le parole di don Mariano, a far capire che anche la Chiesa non era tutta santa: “La Chiesa è grande perché ognuno ci sta dentro a modo proprio”. Quella stessa Chiesa che ha proclamato Beato, nel 2021, il giudice Rosario Livatino, assassinato ad appena 37 anni dalla “stidda” . Sul giudice di Canicattì sono stati scritti diversi libri, due i più significativi: “Il piccolo giudice” di Ida Abate e “Il giudice ragazzino” di Nando Dalla Chiesa.
Molti familiari delle vittime di mafia hanno arricchito la letteratura di opere contro le mafie, di storie di vita, di dolore e speranze. Caterina Chinnici, figlia del magistrato Rocco Chinnici, ideatore del pool antimafia, assassinato nel 1983, ha scritto “È cosi lieve il tuo bacio sulla fronte” (2013). Nel libro parla del padre, di cosa ha significato, per lei e per la sua famiglia, vivere con la sua assenza e con i valori e gli insegnamenti che ha lasciato a perenne memoria: “Ciascuno di noi ha un potere enorme sulla propria vita…se tacere o far sentire la propria voce”. Anche Maria Falcone, sorella di Giovanni, ha scritto molto sul fratello: “L’eredità di un giudice”, pubblicato nel 2022, racconta come il dolore privato è diventato testimonianza universale, perché la memoria possa avere un futuro.
“Noi siamo la memoria che abbiamo e la responsabilità che ci assumiamo. Senza memoria non esistiamo e senza responsabilità forse non meritiamo di esistere”, recita José de Sousa Saramago. Maria Falcone ha fatto di tutto affinché lo strazio diventasse testimonianza universale, raggiungibile a tutti: “La casa è piena di persone. In Sicilia si usa così quando muore qualcuno. È il rituale del cordoglio, la liturgia della morte e va osservata”. Quella casa ideale, quel luogo della memoria universale deve sempre rimanere pieno di persone, perché la mafia si combatte tutti insieme, perché non si può rimanere soli, perché se si entra in un gioco troppo grande, insieme, tutti insieme, quel gioco possiamo mandarlo al macero. Salvo Vitale, nel suo “Peppino Impastato. Una vita contro la mafia” ci parla di un giovane uomo, figlio di un mafioso, che si ribella a suo padre e a cosa nostra. Una vita contro la mafia, appunto. Peppino è stato ucciso, la madre ha portato avanti la sua memoria, senza fermarsi un secondo, fiera, come le donne del sud sanno essere.
La letteratura dell’antimafia si è arricchita, in questi ultimi anni, delle opere di Roberto Saviano. Ne cito solo due: “Gomorra. Viaggio nell’impero economico e nel sogno di dominio della camorra” e il romanzo “Solo è il coraggio”, dedicato ancora a Giovanni Falcone e a Francesca Morvillo. Nel romanzo, Saviano onora la memoria del magistrato cercando di strapparlo alla fissità dell’icona. Quella di Falcone è la storia di un uomo innamorato della sua terra, delle sue luci abbacinanti, dei suoi sapori, delle sue femmine coraggiose. E il suo modo per esprimere questo grande amore è uno solo: lavorare, lavorare sodo. Perché il suo lavoro consiste nel difendere questa bellezza, nel salvarla dall’ombra che la lambisce, dal marciume che ne corrode le fondamenta. Accanto a lui Francesca Morvillo.
“Giovanni è steso accanto a lei, le dà le spalle, ma riesce comunque a vederne il volto: conosce i pensieri che si agitano nella sua testa, li conosce tutti. Sa che lo stanno facendo anche adesso, che gli si stanno aggrovigliando lungo le sinapsi come vermi. Sa che dipende da loro quell’ombra, quella sinistra oscurità che sta sul fondo dei suoi occhi e che non lo abbandona neanche quand’è in stato di grazia, neanche il giorno del loro matrimonio; quel triste rammarico per una sciagura già compiuta, piuttosto che di là da venire, che lei e pochi altri riescono a scorgere”. Quasi una premonizione. “E se – come scrive Fernando Pessoa – la letteratura, come tutta l’arte, è la confessione che la vita non basta”, la letteratura che si occupa e si è occupata di antimafia fa rifiorire le vite spezzate, i loro ideali, i loro valori.
Saviano fa recitare a Francesca Morvillo nel romanzo “Solo è il coraggio” : “Morire senza figli non ti tocchi, pianto come da moglie senza sposo. Il mondo in lutto vorrà lamentare che tu non hai lasciato il tuo stampiglio, mentre ogni vedova può ritrovare il marito negli occhi di suo figlio”. Se uno scrittore di un’altra regione e di un altro tempo scrive queste parole, allora possiamo essere certi che di figli spirituali Giovanni ne ha lasciati tanti; possiamo ritrovare Giovanni negli occhi di ogni ragazzo, di ogni ragazza che in lui, con lui, credono che “la mafia è un fenomeno umano e come tutti i fenomeni umani ha un principio, una sua evoluzione e avrà quindi anche una fine”.
Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org
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