In un Paese ad alta densità mafiosa come il nostro, la presenza delle donne nei movimenti antimafia è stata fondamentale, seppur spesso poco riconosciuta. La storia dell’antimafia è fondamentalmente una storia maschile. Almeno lo è quella ufficiale, che si nutre degli elenchi dei protagonisti, degli eroi e delle vittime. Lo è quella della memoria popolare, fatta di volti, parole, leggende, ballate e cippi. Ed è comprensibile. Scrive Irene Strazzari, dell’Università di Foggia, in un articolo per una rivista di scienze sociali: “Nella società italiana e ancor più marcatamente nell’Italia meridionale, i ruoli di responsabilità istituzionale, come i ruoli di direzione politica e sindacale o di leadership civile, sono stati tradizionalmente esercitati da maschi. Maschio per definizione il mafioso, rappresentante per antonomasia di una società-stato sessista che non ammette la donna nei ranghi dell’unica organizzazione che distribuisce la risorsa pregiata dell’onore. Maschio l’antimafioso, esponente di uno Stato o di una società in contrasto radicale con l’universo dei valori e dei comportamenti mafiosi. Maschi i sindacalisti del dopoguerra, maschi i magistrati e gli altri rappresentanti dello Stato negli anni Ottanta e Novanta”.
E le donne dov’erano? Dove sono? Le donne erano lì, a combattere, a lottare, a morire. Insieme agli uomini che la mafia cercavano di spazzarla via dalla società civile. Come e quanto gli uomini. Più degli uomini, perché hanno avuto il coraggio di parlare e di sfidare lo strapotere maschile, la prepotenza maschile, l’arroganza maschile. Francesca Morvillo, Emanuela Loi, Renata Fonte, giovane assessora alla Cultura a Nardò, in provincia di Lecce, Francesca Serio, madre del sindacalista Salvatore Carnevale, Elda Pucci, Rita Atria, Lea Garofalo, Rosaria Schifani, Felicia Bartolotta Impastato e tante altre.
Sono passati diciotto anni dalla morte di Felicia Impastato, che dal 9 maggio 1978, giorno della morte di suo figlio Peppino, brutalmente ammazzato da cosa nostra, non ha mai smesso di chiedere giustizia, di parlare, di urlare la verità. Felicia aveva aperto la sua casa, aperta alla gente che voleva conoscere suo figlio, a quelli che consideravano la mafia una montagna di merda, aperta ai giovani. A quanti le chiedevano perché, rispondeva: “Perché mi piace parlarci, perché la cosa di mio figlio si allarga, capiscono che cosa significa la mafia. E ne vengono, e con tanto piacere per quelli che vengono! Loro si immaginano: ‘Questa è siciliana e tiene la bocca chiusa’. Invece no. Io devo difendere mio figlio, politicamente, lo devo difendere. Mio figlio non era un terrorista. Lottava per cose giuste e precise”.
Felicia non c’è più, ma la sua forza, la sua ironia, che contraddiceva lo stereotipo della luttuosa mater mediterranea, la lucidità delle sue osservazioni sono rimaste nel ricordo di quanti l’hanno conosciuta, e il suo sorriso, in una foto che la ritrae, accoglie i visitatori della sua casa che, per sua volontà, è rimasta aperta ed è diventata Casa Memoria. In quella Sicilia la “bona fimmina è chiddra ca nun parla”, per cui in un mondo ideale di femmine “buone”, devono parlare solo gli uomini. E invece Felicia ha parlato e ha parlato per tanti lunghi anni, anche quando volevano silenziarla, ignorarla, isolarla. Ancora oggi, sull’esempio di Felicia, molte donne vogliono parlare, come Claudia Fauzzia, di “Malafimmina”, progetto di investigazione, educazione e sensibilizzazione su tematiche riguardanti il genere, le disuguaglianze di genere e questioni femministe. Vogliono essere “mali fimmini”, appunto. Il femminismo come movimento di lotta, anche di lotta contro le mafie.
Claudia ha scardinato apertamente i pilastri dell’attivismo femminista, legandolo strettamente alla lotta antimafia nella consapevolezza che “il sistema mafioso è un sistema patriarcale per eccellenza”. “Sono un’attivista femminista – dice in una intervista pubblicata sul sito di Antimafia Duemila – e quello che ho cercato di fare in questi anni qui in Sicilia è includere il tema e i principi femministi nell’antimafia, in contrasto con il sistema mafioso. Il sentimento è che il femminismo è un movimento sociale e politico per i diritti dei soggetti oppressi, ma la verità è che questo movimento deve essere applicato in un contesto che ha un contesto, una storia, un corpo, un territorio; questo è il territorio dove la mafia è nata e cresciuta e dove attualmente ha molto potere. Il mio attivismo quindi deve essere un attivismo femminista che unisce il contrasto con il sistema mafioso”.
Di esempi importanti, Claudia ne ha avuti tanti. Impossibile fare un elenco completo di tutte le donne che hanno combattuto la mafia, con coraggio e determinazione. Un coraggio doppio, perché hanno combattuto la mafia, in nome della verità e della giustizia, ma hanno anche sfidato i maschi e il patriarcato. Contro tutto e tutti. “C’è un momento in cui chiunque può diventare attivista, specialmente quando accade qualcosa di così sbagliato che senti di dover agire, anche rischiando la vita”, recita la frase di un film statunitense del 2010. Per molte donne, diventare attiviste è stato un fatto normale. Di cose sbagliate accadute e vissute ne hanno sopportate tante e agire, anche a costo di rischiare la vita, è stato naturale.
Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org
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