Cara Italia, ci ascolti? Siamo i tuoi figli e le tue figlie. In te siamo nati, cresciuti forse in un’epoca sbagliata, un’epoca di mezzo, di transizione. Siamo i figli del cambiamento tecnologico, economico, sociale, politico. Quando siamo venuti a te, ci hai cresciuti promettendoci un mondo fantastico, dove il duro lavoro viene ripagato dalla meritocrazia, dove non importa che tu abbia mosso i primi passi in una villa con giardino o nei cortili di una casa popolare, con il mantra meravigliosamente consolatorio del “se studi tanto, lavori tanto e scendi ai giusti compromessi, un giorno potrai realizzare qualunque cosa desideri”. E noi lo facciamo. Studiamo in strutture fatiscenti, dove ci dobbiamo spesso portare le coperte da casa per non morire di freddo. O stare attenti al minimo rumore perché può essere il tetto che ci crolla addosso. Studiamo nelle nostre case, con famiglie che spesso ci sostengono, ma a volte non ci capiscono. Ci dicono che siamo degli sbagli innaturali perché abbiamo capito che non ameremo il tipo di persona che loro si aspettano.
Studiamo con dei professori che a volte ci criticano perché abbiamo capito che con certi stereotipi tossici non vogliamo più convivere, ma anche con professori che ci appoggiano e vengono sospesi per averci permesso di esprimere il nostro pensiero. Studiamo con genitori che fanno due o tre lavori perché hanno dovuto affrontare due crisi economiche e fanno di tutto per non farci mancare nulla, anche se in realtà l’unica cosa che ci manca è il tempo con loro. E quando possiamo studiamo e lavoriamo insieme, per dare una mano in casa. Poi da quella casa ci allontaniamo, alcuni per continuare gli studi, alcuni per studiare e lavorare insieme, altri ancora sono costretti a non poter studiare più e si rimboccano le maniche.
Quelli che si laureano, se non decidono di suicidarsi prima a causa di un sistema asfissiante che troppo spesso si trasforma in una battaglia tra gladiatori, finalmente arrivano al tanto agognato stage. Dove se ti va bene avrai un rimborso spese per il primo anno, poi un salario di un part-time lavorando 56h a settimana per un altro anno e forse, se sei stato bravo a far fuori la concorrenza, potrai avere un salario minimo e renderti finalmente indipendente dalla famiglia. Oppure prendendo esempio dai nostri genitori e facendo due o più lavori contemporaneamente per pagare un affitto e fare la spesa.
E gli altri? Gli altri fanno lavori non umili, ma umilianti. Perché senza contratti o con contratti precari, senza quei famosi contributi che dovrebbero trasformarsi un giorno nella nostra pensione, sfruttati e sottopagati, coprendo turni disumani e con le voci intorno che ci dicono “sei fortunato che un lavoro ce l’hai”. Siamo cresciuti e stiamo crescendo, abbiamo dai 15 ai 40 anni, siamo figli, zii e genitori. Ci rendiamo sempre più conto che quelle promesse non verranno mai mantenute. Così abbiamo preso in mano internet, l’unico svago che ci rimane, e ci siamo reinventati, abbiamo creato nuovi lavori, nuove forme di crescita, informazione, intrattenimento. Spesso ci siamo raccontati e abbiamo capito che le nostre storie sono tutte più o meno simili. Poi è arrivata la pandemia, e per molti di noi è stata una tragedia. Alcuni hanno perso il lavoro o l’entrata extra che permetteva di continuare gli studi. I nostri punti di aggregazione sociale e di svago culturale sono stati chiusi.
Abbiamo perso amici, abbiamo perso parenti e punti di riferimento. Ci siamo chiusi in casa, cercando di sdrammatizzare sui social per cercare di renderci la situazione un po’ meno pesante, ma siamo stati per due anni accusati di essere degli untori. Abbiamo avuto tanto tempo per riflettere e tantissimi di noi cercano di dare una mano agli altri, sensibilizzandoci su quelle che per noi sono le tematiche importanti di oggi per poter vivere in una società più serena: la questione ambientale, affinché le generazioni dopo di noi possano ancora avere una terra su cui nascere; la questione gender, affinché nessun bambino o bambina in futuro possano sentirsi sbagliati; la questione razziale, affinché nessun ragazzo e nessuna ragazza vengano più presi di mira per il colore della loro pelle o gli abiti che portano; la questione femminile, affinché nessuna donna si senta più in pericolo per strada o in qualsiasi altro posto; la questione della salute mentale, affinché non venga più vista come una cosa di cui vergognarsi, perché uno psicologo e un cardiologo hanno la stessa valenza, perché non è da deboli ammettere di avere bisogno di aiuto, dato che la società della performance ci sta sfiancando.
Tanti, tantissimi di noi, sai, stavano aspettando il bonus psicologo che la tua amministrazione ci aveva promesso, per poter andare o ritornare in terapia. Perché abbiamo bisogno di aiuto, ne siamo consapevoli. Ma anche se lo psicologo e il cardiologo hanno la stessa valenza per noi, non è così per il sistema. Lo psicologo è un lusso. Perché con lui non puoi fare due/tre visite, magari un’operazione e risolvi il problema. Con lui la terapia è spesso lunga, ci vuole tempo per guarire la testa con tutto il caos che ci avete messo dentro. Le strutture pubbliche sono al collasso e noi troppo spesso non ci possiamo permettere dai 120 ai 180 euro al mese con gli stipendi che troviamo e il caro-vita che siamo costretti ad affrontare. Lo sappiamo, certo, che il bonus non era la soluzione, perché prima si dovrebbe cambiare la mentalità di un sistema che vede ancora questo tipo di terapie come inutili, o cose per “pazzi”, ma sai, poteva essere un punto di partenza.
Come le “quote rosa” (che in realtà sono quote gender perché funzionano anche al contrario), che da “necessarie” col tempo stanno diventando “ovvie”. Come avrebbe dovuto essere il ddl Zan, per le questioni che abbiamo elencato prima. Sapevamo che avrebbe significato accontentarsi delle briciole, ma lo avremmo fatto sia perché ne abbiamo bisogno, sia perché briciola dopo briciola si può fare un panificio. Ma il governo ha deciso che è meglio darci soldi per i rubinetti, per le zanzariere, per le vacanze (anche se spesso non abbiamo ferie), per le terme, per i monopattini e le auto elettriche. Perché si sa che se ti senti soffocare da una società che non ti ascolta, non ti aiuta, ti sfrutta e ti giudica incapace, se ti fai una bella sauna o rifai le zanzariere nel tuo monolocale in affitto di 15 mq che paghi come fosse la Reggia di Caserta, ti passano tutte cose.
Quindi, cara Italia, noi siamo i tuoi figli, ti vogliamo bene, abbiamo sognato per anni un futuro insieme a te, ma capisci bene che le condizioni che ci stanno mettendo davanti non sono nemmeno lontanamente simili a quelle ci avevano promesso. Non biasimarci, allora, se alcuni di noi prendono brutte strade, se altri decidono di andare via o se altri ancora semplicemente si arrendono. Ti saremo grati in ogni caso, per le cose belle e per quelle meno belle. Resteremo sempre nell’attesa di avere voce in capitolo. Con affetto, i tuoi giovani (e meno giovani) figli.
Sarah Campisi -ilmegafono.org
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