Le sentenze vanno lette prima di essere commentate. Così ripetono molti giuristi, giornalisti, commentatori e cittadini comuni davanti ai 13 anni inflitti all’ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano. Un assunto di certo condivisibile, per carità. Esiste però un elemento fondamentale, che spesso sfugge a chi sostiene tale sacrosanto principio: alle sentenze si giunge alla fine di un procedimento che determina l’esito di un grado di giudizio e che ha una sua storia specifica. Allora, se si conoscono le carte e le strade che quel procedimento ha seguito sin dall’inizio, è assolutamente ammissibile e perfino doveroso raccontare le ragioni di una giustificata indignazione dinnanzi a una sentenza che è il frutto di una inchiesta giudiziaria surreale. Una inchiesta che parte con un’ordinanza di arresto di 132 pagine dalle quali emerge una imbarazzante condotta delle indagini da parte delle forze dell’ordine. Relazioni piene di errori, superficiali, basate su interpretazioni soggettive dei contenuti delle intercettazioni.
Leggendo quell’ordinanza è già evidente come il teorema accusatorio sia fragile, privo di sostegno concreto, al punto che i capi di imputazione accolti erano molti meno rispetto a quelli richiesti. Quello era soltanto l’inizio di una vicenda paradossale, che ha trovato la sua degna conclusione in una condanna esagerata, talmente esagerata da mettere a nudo tutta la sua inconsistenza. Qui non si tratta di paragonare, come stanno facendo molti, gli anni di condanna per Lucano con quelli inflitti a criminali efferati, colpevoli di reati molto gravi. Non è così, infatti, che si affronta il tema della giustizia, non mettendo a confronto vicende e procedimenti differenti. Il punto qui è che, chi ha letto le carte e seguito la storia di questo processo, sa bene che ci sono falle inquietanti, sa che non esistono condotte penali rintracciabili a carico di Lucano, che le uniche contestazioni potrebbero essere al massimo amministrative e contabili, sanzionabili dalla Corte dei Conti.
Sono risibili certi articoli di giornalisti e giornaliste che affidano la loro disamina sulla storia di Riace e di Lucano alla vox populi, alle lamentele di questo o quell’altro soggetto per questioni di pagamenti o di soldi rendicontati male da parte di alcune cooperative che ruotavano attorno all’accoglienza dei migranti a Riace. Sono risibili perché in tutta questa vicenda processuale non esiste alcuna prova che Lucano abbia sottratto denaro per un tornaconto personale o per sistemare un familiare o un amico. E non lo dice chi scrive, lo dicono le pronunce del tribunale del Riesame di Reggio Calabria e la Corte di Cassazione, che hanno sottolineato la vacuità delle imputazioni, l’assenza di elementi, di condotte penalmente rilevanti, di riscontri ad accuse che sono basate per lo più su congetture. D’altra parte, l’uomo dal quale è partita la denuncia che ha fatto scattare tutta l’indagine, un commerciante di Riace, è stato già ritenuto inattendibile dal Tribunale del Riesame di Reggio Calabria.
Ecco allora che il pm Permunian si spinge a parlare di tornaconto politico, di potere finalizzato a un interesse personale. Un’altra boutade, smentibile facilmente se si considera che Mimmo Lucano ha rifiutato più volte candidature blindate alle elezioni politiche ed europee. Dove sarebbe allora questo interesse politico-elettorale, se viene meno la condizione essenziale per poterne godere, vale a dire la candidatura? Nemmeno questo aspetto evidente ha fermato il pm Permunian e il procuratore di Locri, Luigi D’Alessio, nella loro azione persecutoria. Proprio così, persecutoria, perché mai, in questi anni di procedimento, i due magistrati hanno mostrato un dubbio, un’incertezza relativa alle indagini. Così come i magistrati del Tribunale di Locri non hanno tenuto conto delle falle dell’indagine, delle precedenti pronunce del Riesame (che annullò il divieto di dimora inflitto a Lucano) e della Cassazione.
Doveva andare così e la punizione doveva essere eclatante. Mimmo Lucano andava fermato e con lui il modello di accoglienza di Riace. Non è una sentenza politica, ha detto uno dei legali di Lucano, l’ex sindaco di Milano, Giuliano Pisapia. Giusto pensare che la magistratura sia scevra da condizionamenti e che sbagli da sola, per incapacità, per accanimento, per arroganza. Ma resta il fatto che, dalle carte di questo processo, non esiste alcuna prova di un’appropriazione di soldi da parte di Lucano per arricchimento personale o per aumentare il proprio consenso elettorale. E chi conosce Mimmo, conosce la sua onestà e la sua lontananza da logiche di potere o dittatoriali. Ha dato tutto al suo paesino, lo ha fatto rinascere, lo ha reso modello imitato in tutto il mondo. Ha fatto quello che poteva e anche di più. Chi ha contezza delle peripezie burocratiche che circondano la vita dei migranti, sa bene che non sempre è facile rispettare le regole per aiutarli, che è possibile incappare in errori o travalicare la forma per arrivare alla sostanza, laddove l’umanità chiama.
Lucano, o chi ha collaborato al suo modello, non è stato perfetto sul piano contabile e amministrativo? Può darsi, ma nulla che possa essere considerato reato da codice penale. Lucano ha lottato e ha regalato un soffio di vita e un vento di risveglio alla sua terra e a tantissime persone che questo Paese emargina e tortura ogni giorno. Inoltre, c’è un elemento che viene poco sottolineato, anche negli articoli di alcune colleghe e alcuni colleghi che si spingono a giudizi affrettati mettendo in secondo piano ciò che invece è il cuore di questa vicenda: lo sgambetto dello Stato. Minniti, Salvini, Sibilia, uno per ogni schieramento, politici che da ministri o sottosegretari hanno colpito Riace nel modo più subdolo, ossia sottraendo i soldi che permettevano di pagare fornitori, lavoratori, esercizi commerciali che erano il cuore del sistema di accoglienza. Mandando in default quel sistema. Che non era solo legato ai migranti, ma anche a una comunità locale che si stava risollevando.
Riace è stata usata e consumata dal potere centrale, così come è stata danneggiata da una eccezionalità che ha portato a caricare il piccolo comune di tutto il peso delle mancanze dello Stato sul tema dell’accoglienza. Riace e Lucano sono vittime di un gioco politico. Se qualcuno ha sbagliato sul piano contabile, pagherà, ma Lucano è innocente e lo dimostrerà. E di certo tanti dovranno chiedere scusa. A partire dal procuratore D’Alessio, che ormai ci ha abituato a fare i processi in diretta tv o sui giornali, con dichiarazioni gratuite sin dal giorno dell’arresto di Lucano. L’ultima uscita è quella con la quale ha paragonato il sindaco a un bandito da film western. Evidentemente, il procuratore, che tanto parla di legge e che continua a difendere una inchiesta che fa acqua sin dal suo sorgere, ha dimenticato che prima di dare del bandito a qualcuno bisognerebbe aspettare il terzo grado di giudizio e la condanna definitiva.
Chissà se, al di fuori della sua smania di apparire, capirà che è scandaloso oltraggiare, per l’ennesima volta, una persona su un organo di stampa e senza un contraddittorio. Perché se è vero che chi non conosce le carte dovrebbe attendere le motivazioni prima di commentare una sentenza, è altrettanto vero che un procuratore e un pm (anche Permunian ha rilasciato dichiarazioni alla stampa sulla sua inchiesta) dovrebbero esimersi dai microfoni e dalla telecamere almeno fino alla pubblicazione delle motivazioni dei giudici che hanno emesso la sentenza. È una questione di giustizia. Quella che a Locri qualcuno ha scelto di privare di senso.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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