Nel solito gioco dei vincitori e degli sconfitti post elezioni, ciascuno prova a nascondere i flop e a rendere più roboanti le piccole vittorie. C’è chi si esalta per i plebisciti ottenuti nei propri feudi, chi sorride per una strategia azzeccata, senza domandarsi quale sia il prezzo da pagare o da far pagare al Paese, chi si assegna inspiegabilmente ruoli determinanti malgrado percentuali in miniatura. E poi c’è chi si eccita per una vittoria cercando di nascondere altre sconfitte e chi si deprime o si prepara alla resa dei conti. Sullo sfondo di tutto questo chiacchiericcio politico, si erge un’ombra cupa, un volto mesto che non riesce più a nascondere con un sorriso gonfio o una battuta triviale le tracce di un ormai imminente declino. È il volto della sconfitta, che è tutta personale, come personali venivano considerate le vittorie. È il volto di Matteo Salvini, il vero perdente, o meglio, quello che fa più rumore.

Qualcuno sostiene giustamente che non sia l’unico e che ci siano forze politiche che sono uscite ancora più bastonate da questo confronto elettorale: basti pensare ai 5 Stelle ormai agonizzanti o a un Renzi ormai relegato in un angolino, fra rimorsi e rimpianti, o a un Calenda che rimane quello che è sempre stato, ossia poco più che niente. Vero, ma nessuna di queste tre forze godeva di buona salute negli ultimi tempi e il loro flop era più che scontato. Con Salvini e con una Lega che comunque tiene botta in molti territori, e che conta su figure vincenti come Zaia, invece, non c’è mai nulla di veramente scontato. Anche se, sin dai tempi ebbri del Papeete, quando un Matteo su di giri decise di suicidarsi e di cacciare la Lega dal palazzo, si rincorrono voci di un malcontento diffuso all’interno della Lega. E l’ombra di Zaia, sempre più ingombrante, ha alimentato i malumori nei confronti del leader.

Un leader che, a colpi di slogan, rosari baciati in pubblico, flirt con l’oligarchia russa, azioni muscolari contro i disperati e accuse di sequestro di persona, aveva portato il suo partito ai massimi storici. Un leader non carismatico ma abbastanza rozzo e televisivo da raccogliere il consenso di un Paese che vede ingrossare la maggioranza di chi all’etica della politica e al bene comune preferisce l’avanspettacolo, il populismo da bar, lo stomaco, il disprezzo per la forma e anche per la sostanza. Un gioco che funzionava, quello di Salvini, fino a quando portava risultati alla Lega, che è un partito molto complesso, territorialmente strutturato, e molto più composito di quello che si crede. Quando lui stesso, tra un mojito e una danza, ha scelto di rompere il giocattolo, lasciando sulle onde del mare e sull’orlo dei bicchieri la necessaria lucidità, ha avuto inizio il suo declino. Che procede inarrestabile. E se la Lega regge ancora, nonostante abbia bruciato milioni di voti in due anni, non lo deve certo al suo capo politico.

La resa dei conti, tuttavia, non sarà aperta, visibile, pubblica. La resa dei conti si giocherà dentro le stanze nascoste delle sedi lombarde, con il Veneto a fare da spettatore attivo, da pungolatore discreto. La Lombardia dovrà risolvere il problema, sapendo che Salvini ha comunque le sue garanzie da giocarsi, ha carte da buttare sul tavolo di chi lo vorrebbe da parte. Internamente, il leader della Lega dovrà giocare una battaglia difficile, la più difficile, perché è una battaglia contro se stesso, i propri limiti e i propri vizi. E per chi, come lui, ha mostrato una patologica megalomania, un grave narcisismo e soprattutto scarsa intelligenza politica nel momento in cui avrebbe dovuto rafforzare il proprio consenso, sarà un compito ancora più complicato.

Sarebbe molto più facile per chi, nella Lega, prova imbarazzo per le maniere di far politica del prode Matteo, se la vicenda giudiziaria che lo coinvolge andasse avanti e lo rendesse impresentabile. Sarebbe molto più semplice chiedergli un passo indietro, anche temporaneo, piuttosto che aprire una contesa interna, nella quale alla fine l’ala lombarda, come ha giustamente ricordato Cacciari citando la parabola di Tosi e del suo vano tentativo di sfidare i vertici, rimane sempre quella più forte.

Nel frattempo, Salvini deve guardare anche fuori dalla Lega, dove la Meloni continua a crescere catalizzando i voti dei populisti stanchi del capo leghista, delle sue cadute, delle cattive figure. E qui si evidenzia la debolezza di Salvini e del suo modello politico. Giorgia Meloni dice e fa le stesse cose del collega sovranista, anzi a volte è anche peggio, perché è meno folcloristica e più crudele, più autenticamente cattiva, insomma lei “ci è” e non “ci fa”. Eppure lei cresce nel consenso, perché è stata abile a nascondersi dietro gli eccessi di Salvini, non seguendolo in certi frangenti, prendendo leggermente le distanze da alcune sparate salviniane per apparire più responsabile, più “di governo”. Il leader leghista, che non spicca per abilità politica e capacità di comprendere il momento, non se n’è curato, ha continuato con il suo linguaggio, il suo esibizionismo social, le sceneggiate al citofono, le cene, gli alberi di ulivo abbracciati, le frasi raccapriccianti sull’aborto.

Si è presentato sempre più come un prodotto televisivo e mediatico che come un politico capace di rassicurare il Paese in un momento di precarietà, di crisi e di paure per il futuro che il Covid ha accentuato. Siamo alle solite: il prodotto politico comincia a perdere il suo effetto novità, comincia a mostrare le sue pecche. Così comincia a tornare alla memoria, con maggiore chiarezza, l’incapacità di un leader che aveva trovato un luogo perfetto e comodo per il consenso, sfruttando dei servitori sciocchi, i 5 stelle, che lo stavano riempiendo di doni, lo stavano persino fornendo di munizioni senza capire che lui le avrebbe usate innanzitutto contro di loro. Tutti gli errori di quello che si autodefiniva impropriamente Capitano sono ormai a vista. L’aspirante re è nudo. E se i populisti cominciano a perdere appeal, lui di sicuro sarà il primo a essere travolto.

Perché, possiamo starne certi, lui questa sconfitta continuerà a non vederla. Continuerà, anzi a rilanciare, ad alzare la posta. Partendo dalla chiamata ai suoi fan in occasione dell’udienza del 3 ottobre a Catania. Lì giocherà le sue carte, forse le ultime, forse le più pericolose. Aveva probabilmente sognato di arrivarci più forte, ma non tutto il male viene per nuocere, perché in un Paese che esalta il vittimismo, un leader in difficoltà può sempre avere una chance. Soprattutto quando i tuoi avversari non sono tanto furbi. Toccherà a loro lasciarlo sprofondare ed evitare assist che possano ridare ossigeno a una figura politica che, un po’ come accaduto all’altro Matteo, sta iniziando il suo misero declino.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org