L’Italia è un Paese fondato sulla facoltà di non rispondere. Ha fatto notizia la scelta di Berlusconi e dei suoi legali di avvalersi di tale facoltà nel corso del processo d’Appello sulla trattativa tra Stato e mafia, dove è imputato Marcello Dell’Utri. Era stata proprio la difesa dell’ex senatore e braccio destro del Cavalierea convocarlo in qualità di testimone. Nessuna risposta. Nemmeno una battuta, uno sberleffo, una barzelletta. Nulla. Solo una frase: “mi avvalgo della facoltà di non rispondere”. Dell’Utri ha avuto la conferma che il suo vecchio compagno di avventura lo ha scaricato, non lo aiuta. Ora vedremo se l’ex senatore di Forza Italia presenterà il conto oppure no. Ce lo diranno il processo e il tempo. Quello che è certo è che, su uno dei punti cruciali di questa vicenda, continua il silenzio. Come è abitudine, del resto, nel nostro Paese di fronte a misteri, inchieste, realtà inquietanti.
Le verità, soprattutto quelle più sconvenienti, vengono taciute, soffocate dall’assenza di risposte, dal rumore sordo dei silenzi. Esistono veri e propri professionisti del silenzio e delle risposte non date. La politica un tempo era dibattito, era fatta di domande scomode e di risposte. Anche indisponenti, furbe o retoriche, ma comunque risposte. Oggi nemmeno quello. La politica accetta solo le domande comode o le lusinghe, per il resto fugge. Come fa Matteo Salvini, ad esempio, quando replica stizzito, con due slogan, un bacione e un insulto, a quei cronisti che pongono le domande giuste. I rapporti con i russi? Savoini? I 49 milioni? Il caso Siri? A proposito, qualcuno se lo ricorda ancora il caso Siri? Perché, forse non ce ne siamo accorti, ma non se ne parla più. Eppure in ballo c’erano pesanti accuse su rapporti ambigui con faccendieri che a loro volta erano accusati di essere al soldo di esponenti di spicco di cosa nostra.
Silenzio. Avvaliamoci della facoltà di non rispondere. Proprio come fa Giorgia Meloni quando le si ricordano le sue contraddizioni e incoerenze o quando le si chiede di prendere le distanze dai neofascisti e dalla loro storia insanguinata o quando le si fa notare che alcuni amministratori locali di FdI sono finiti nei guai per comportamenti razzisti o per rapporti con la criminalità organizzata. Però, ad essere onesti, la Meloni ogni tanto risponde. Lo fa per annunciare querele che poi non presenterà mai perché perderebbe con certezza, come nel caso dello scontro con Report sugli account che diffondono fake news appositamente.
Ma attenzione: non sono solo i sovranisti ad avvalersi della facoltà di non rispondere. Anche nel fronte opposto (o presunto tale) ci sono alfieri del silenzio. Come la ministra dell’Interno, Lamorgese, che si rifiuta di rispondere alle domande sulle inchieste che stanno svelando i rapporti fra trafficanti, guardia costiera libica e istituzioni italiane, così come sulle accuse della Corte penale dell’Aja contro esponenti libici coinvolti anche nel traffico di esseri umani e nella gestione dei centri di detenzione libici, sia ufficiali che non ufficiali. La Libia e i migranti, la guardia costiera, i militari, le istituzioni. Insomma tutto quell’insieme che fa da cornice sanguinolenta a quegli accordi, a quel memorandum infame che la Lamorgese ha continuato a difendere, con parole e motivazioni inaccettabili, imbarazzanti, ma coerenti con la sua figura che in troppi hanno applaudito con eccessiva fretta.
Un memorandum che è figlio di un altro protagonista dei silenzi: Marco Minniti. L’ex ministro che, così come il suo premier Paolo Gentiloni, ha deciso di avvalersi della facoltà di non rispondere dinnanzi allo scoop dell’eccelso collega Nello Scavo, su “Avvenire”, che ha rivelato i rapporti e gli incontri con Abdulrahman Al Milad, il famigerato “Bija”, uno dei presunti boss del traffico di esseri umani. C’erano in carica Minniti e Gentiloni, nel 2017, quando Bija venne invitato a quegli incontri ufficiali sulla Libia e sul tema migranti. Una cosa gravissima, così come grave è il silenzio sulla vicenda da parte dei due diretti interessati. Eppure ci si aspetterebbero parole e spiegazioni convincenti, a patto che ne esistano.
L’Italia purtroppo è questa. Un Paese fondato sulla facoltà di non rispondere. Bisognerebbe riscriverlo, l’articolo uno. Perché di esempi relativi a questo muro di silenzi, misteri e omertà di Stato potremmo elencarne centinaia e centinaia. E qui si tocca il punto dolente, che ci riguarda tutti quanti da vicino. Perché a quella facoltà di non rispondere in verità ci stiamo appellando anche noi come cittadini. Tutti o quasi. Anche quelli che si indignano e si dolgono ogni giorno davanti al declino della nostra democrazia ferita. Il nostro silenzio sta nella nostra immobilità, nel delegare a una minoranza sempre più esigua e isolata il compito di agire concretamente, ogni giorno, affrontando ostacoli immensi, muri sempre più insormontabili.
Il nostro silenzio sta nell’inerzia, nel rinchiuderci nel nostro quotidiano fatto di vita privata, di qualche lacrima di rabbia e qualche pugno stretto o, di tanto in tanto, sbattuto sul tavolo dell’insofferenza per quel che avviene. Come se avvenisse malgrado noi e non a causa anche nostra. Ecco, quella inerzia, spesso inconsapevole, narcotizzata dalla nostra abitudine alla iperinformazione che ci accarezza amorevolmente la coscienza, è proprio il segno della nostra intenzione di avvalerci della facoltà di non rispondere. La stessa di quelli che combattiamo.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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