Non tutte le vite sono uguali, non tutti facciamo gli stessi percorsi. Esistono persone alle quali la vita impone scelte difficili, bivi inaspettati capaci di stravolgere tutto. Accade così che gente comune debba, un giorno qualunque, decidere se essere vittima o essere eroe, una scelta complicata che, inevitabilmente, condiziona ogni singolo “domani”. È questo che è accaduto a Gianluca Maria Calì, un imprenditore siciliano di cui abbiamo già parlato in passato (leggi qui e qui). Un uomo che ha scelto di non piegarsi, nell’ormai lontano 2011, alla logica mafiosa e che da allora, ogni singolo giorno, paga il prezzo del proprio coraggio insieme a chiunque gli sia caro.
Non solo riconoscimenti (che comunque non sono mancati) ma tante, tantissime difficoltà, fatte di paura, battaglie legali e delusioni. Lo abbiamo sentito per avere dei brevi aggiornamenti circa la sua situazione e questa chiacchierata ha anche offerto qualche spunto di riflessione sulla condizione dei testimoni di giustizia nel nostro Paese. Riguardo alla sua situazione, per prima cosa ci ha informati che, lo scorso 11 gennaio, è stata chiesta in appello la condanna ad 8 anni per i suoi estorsori, sostanzialmente confermando la pena commutata loro in primo grado. Parlando degli attentati da lui subiti nel 2011, l’imprenditore ci ha raccontato delle dichiarazioni rese dal pentito Antonino Zarcone, ex boss di Bagheria, davanti a magistrati e carabinieri ed estratte dal fascicolo processuale conclusosi per l’appunto con la condanna dei suoi estorsori.
Secondo il pentito, i mafiosi locali, venuti a conoscenza dell’acquisto da parte di Calì di un capannone ad Altavilla Milicia (due anni dopo l’attentato incendiario subito presso l’attività avviata a Casteldaccia) e del progetto di realizzarvi un autosalone, covavano l’intenzione di chiedere all’imprenditore “aiuti per i detenuti”. Lo stesso Zarcone, al riguardo, avrebbe consigliato agli amici di stare attenti “a questo personaggio, in quanto era facile a denunziare e di starci con le pinze”.
“Sapere che i mafiosi hanno paura di me e delle miei denunce – ci ha confessato orgoglioso Calì – mi fa molto piacere, e credo sia utile che tutti sappiano che i mafiosi hanno paura di chi denuncia”. Sempre in merito a come viene considerata la sua figura dalla mafia di Bagheria, Calì ci ha raccontato un inquietante aneddoto risalente a pochi mesi fa. Un pentito, inserito in un programma di protezione testimoni e considerato attendibile dai pm (è bene sottolinearlo), lo ha contattato, dapprima tramite Facebook ed in seguito telefonicamente (la conversazione è stata registrata dall’imprenditore ed è già nelle mani degli inquirenti). Nel corso della conversazione il collaboratore di giustizia ha riferito a Calì tantissimi dettagli circa l’attentato del 2011, fugando di fatto ogni dubbio circa il suo essere effettivamente informato dei fatti.
Egli ha riferito anche che, al momento dell’arresto, gli erano stati sequestrati una pistola calibro 45 e 7 proiettili auto esplodenti e che, in precedenza, aveva consegnato una Beretta ad una persona a Milano, località molto frequentata dall’imprenditore siciliano. Erano dunque in programma ben due attentati (uno in Sicilia e uno a Milano) contro “il numero uno degli sbirri di Bagheria”.
“Anche questo essere considerato il numero uno degli sbirri – ci ha detto Calì – da un lato mi inorgoglisce ma, è inutile negarlo, se siamo in pochi a denunciare, mi rende un facile obiettivo”. A questa paura per la propria incolumità si aggiunge anche l’amarezza nello scontrarsi con le contraddizioni della burocrazia e della giustizia italiana. Vicende paradossali come l’assurda odissea giudiziaria affrontata dal testimone di giustizia in seguito all’acquisto di una villa precedentemente sequestrata al boss Michele Greco. Avviate le opere di ristrutturazione, l’imprenditore era stato infatti accusato di abusivismo edilizio, subendo il sequestro dell’immobile. Sono dovuti passare 5 anni di lotte giudiziarie per arrivare all’assoluzione “perché il fatto non sussiste”.
“La villa – ci ha dichiarato – è ormai prossima a diventare una casa vacanze atta a ospitare turisti da ogni parte del mondo e a dimostrare concretamente che la Sicilia non è più solo terra di mafia ma anche di persone per bene che ogni giorno lottano con forza e coraggio facendo il proprio dovere morale e civile”. “Quella villa – ha aggiunto Calì – è un riscatto sociale di tutti i siciliani onesti che non chinano la testa e combattono la mafia. Sarà un’attrazione turistica e il mondo intero saprà che la Sicilia e i siciliani sono meravigliosi”.
Altra vicenda paradossale riguarda il riconoscimento, già di per sé tardivo, all’imprenditore dei sussidi previsti per le vittime di mafia in forza della legge 44 del 1999. Una volta che, finalmente, il problema sembrava essersi risolto e le somme sembravano essere nella sua disponibilità, si è posto il problema di certificare che venissero utilizzate esclusivamente per riavviare un’attività imprenditoriale (come previsto dalla succitata legge). Ma, nonostante fossero state presentate le necessarie certificazioni in tal senso, è stato predisposto un atto di sequestro conservativo delle stesse lasciando, in maniera incomprensibile, il beneficiario in inevitabili ristrettezze economiche.
“Mi fa molto male – ha commentato – sapere di avere avuto il sostegno concreto dello Stato, che mi ha riconosciuto un contributo per rifarmi una vita imprenditoriale nell’economia legale e poter tornare alla normalità, e poi vedere che un giudice mi accusa di essermi intascato i soldi miei (per legge 44/99) sequestrandomi tutto e facendomi tornare nell’oblio, per la felicità dei mafiosi e di tutti quelli che mi vogliono male”.
Proprio dall’amarezza per questo nuovo ostacolo nel suo cammino tortuoso sono scaturite alcune interessanti riflessioni. “Chi denuncia e fa il proprio dovere – ci ha detto deciso l’imprenditore siciliano – deve essere considerato uno spirito da emulare, qualcuno in cui credere, un’entità a cui tutti devono ambire. Se invece chi denuncia perde tutto e non ha più una vita chi pensate vorrà mai emularlo? Al contrario se si continua a far passare il messaggio che chi delinque ha tante donne, auto e moto potenti, ogni tipo di arma e droga, tanti soldi, ogni forma di divertimento e viene descritto come persona di successo agli occhi di un ragazzo, in fase di crescita e formazione, come credete possa essere interpretato?”.
“Quanto accade ogni giorno a molti ragazzi e non solo – ha continuato Calì – è frutto di questo spirito di emulazione sbagliato, si deve fare un grande lavoro sociale. La mafia si sconfigge anche con un movimento di respiro sociale che parta dal basso e come una macchia d’olio si possa espandere positivamente raggiungendo ogni livello sociale, perché non basta la sola repressione. Io nel mio piccolo cerco di fare sempre e comunque il mio dovere”.
Infine, malgrado l’amarezza della sua situazione e il sentimento di delusione che prova, Calì ci ha spiegato che intende lottare ancora e lo ha fatto usando una citazione del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa: “Certe cose non si fanno per coraggio, si fanno solo per guardare più serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei nostri figli”.
Anna Serrapelle- ilmegafono.org
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