Quando si parla di immigrazione e di rotte migratorie, ai più vengono in mente i profughi e i migranti che, dal Medio Oriente e dall’Africa, scappano e cercano di raggiungere l’Europa (una minoranza rispetto a chi si rifugia nei paesi limitrofi a quelli di origine). In realtà, lontano dall’attenzione internazionale, si registra un altro drammatico flusso migratorio, con il solito terribile scenario fatto di viaggi tremendi, crudeltà, umiliazioni, morte. Parliamo delle centinaia di migliaia di persone che partono dal Centro America e, attraverso lo sconfinato e pericoloso Messico, raggiungono la frontiera con gli Stati Uniti. Un fenomeno i cui numeri mettono i brividi: circa 600 mila migranti all’anno muovono verso il sogno americano; 15 mila persone sequestrate; tra i 50 e i 100 mila morti negli ultimi 15 anni; una donna su sei violentata durante il viaggio. Tutti vengono rapinati.
Ciò accade nel silenzio assordante dei governi e delle organizzazioni mondiali. L’UNHCR, lo scorso 28 ottobre, con un comunicato ufficiale, ha cercato di accendere i fari su questa situazione terribile. Papa Francesco, in queste ore in Messico, parlerà di migranti e proverà a creare attenzione su un tema rispetto a cui, la chiesa messicana, è uno dei pochi poteri che prova a fare qualcosa di concreto. Per fortuna, c’è anche chi, con impegno e coraggio, prova a fare qualcosa, raccontando da vicino quello che avviene, cercando di aprire una finestra su questa parte di mondo.
Flaviano Bianchini, attivista e ambientalista italiano, fondatore e presidente della Ong, Source International, è autore di un libro (“Migrantes – Clandestino verso il sogno americano”, Bfs edizioni) che racconta il viaggio che egli stesso ha realmente fatto lungo il Messico, vestendo i panni di Aymar Blanco, immigrato peruviano, e mischiandosi ai migranti in cammino dal Guatemala all’Arizona. Flaviano ha 33 anni, una storia di attivismo e altri due libri che raccontano esperienze importanti in Tibet e in Amazzonia. E molte cose da dire, partendo da un vissuto concreto.
Lo abbiamo intervistato per parlare di questo suo viaggio e della situazione dei migranti tra Centro e Nord America. “La situazione è molto grave – esordisce Flaviano – forse ancor più che in Europa. Anche perché c’è una differenza sostanziale: mentre i migranti africani e asiatici sono rifugiati, o comunque cercano lo status di rifugiati e, dunque, una volta arrivati in Europa, possono avere delle chance di essere protetti, in Messico sono tutti migranti economici, non hanno alcuna forma di tutela, anzi, la polizia li arresta, li sequestra, li espelle. È una battaglia nel riuscire ad arrivare senza farsi vedere, nascondendosi, il tutto tra i confini del Messico, uno dei paesi a più alta densità criminale”.
Sono i cartelli dei narcos a gestire il traffico di esseri umani in Messico?
Sì, gestiscono tutta la rotta migratoria. Ma non ci sono solo i narcos, c’è anche un problema di microcriminalità. I migranti centro e sudamericani vengono costantemente assaltati, derubati, sequestrati, rapiti, torturati, violentati. Secondo Amnesty International, una donna su sei viene stuprata prima di raggiungere gli Stati Uniti. Le violenze sessuali sulle donne sono così comuni che, nei luoghi di partenza del viaggio, a Tenosique o a Tecun Uman, cioè alla frontiera tra Guatemala e Messico, si è creato un vero e proprio business di iniezioni contraccettive. Sono le stesse bande a gestirne il commercio, per far sì che le donne possano farsi una iniezione prima di partire per il viaggio.
Da dove provengono i migranti?
Principalmente da El Salvador, Honduras, Guatemala, che sono i tre paesi più violenti al mondo in base a tutte le classifiche, e poi anche il Nicaragua. Inoltre ci sono anche alcuni ecuadoregni, colombiani, peruviani. Più dell’80%, però, sono centro americani. Ultimamente sono in aumento anche i migranti provenienti da altre parti del mondo, sia africani che cinesi o altri asiatici, che volano in Messico, un paese ad alta vocazione turistica per il quale non è così difficile ottenere un visto. Da lì poi cercano di arrivare negli Stati Uniti. La maggioranza dei migranti, comunque, parte dalla frontiera tra Guatemala e Messico.
Quanti sono i migranti che annualmente si mettono in viaggio?
È difficilissimo dirlo perché non ci sono organizzazioni che se ne occupano. Si pensi che in Messico, per esempio, non c’è l’ufficio dell’UNHCR, né la Croce Rossa, non ci sono organizzazioni umanitarie internazionali. Quindi abbiamo solo stime (come sono stime anche quelle relative ai morti), ma i dati più affidabili parlano di 600 mila persone l’anno che raggiungono gli USA.
Tu hai fatto lo stesso viaggio, con il nome di Aymar Blanco, come racconti nel tuo libro. Da dove sei partito? E quanti giorni hai impiegato?
Sono partito dai confini del Guatemala, quindi ho attraversato tutto il Messico fino a raggiungere gli Stati Uniti, esattamente la città di Tucson in Arizona. Sono stati 21 giorni e quasi 4 mila chilometri di viaggio.
Hai vissuto tutto quello che vive un migrante: il carcere, la solitudine, le rapine, i maltrattamenti. Cosa ti è rimasto di più di questo viaggio? Quali sono state le difficoltà peggiori?
Non è facile dirlo. Sicuramente una parte molto difficile è stata il carcere, quando siamo stati arrestati, o meglio, sequestrati dalla polizia, dal momento che nessuno ci ha mai letto un capo di imputazione o ha preso le nostre identità. Ci hanno semplicemente rinchiuso in una cella per due giorni e derubato di tutto. Poi, probabilmente, la cella serviva di nuovo libera e così ci hanno rilasciato. Un altro momento duro è stato l’attraversamento del deserto tra Messico e USA, il passaggio finale. Si cammina di notte, ci si nasconde di giorno. La notte fa freddissimo, di giorno si muore di caldo. Per di più sono circa 110-120 km, quattro notti e tre giorni nascosti. Non è stato facile. Considera che nella traversata del deserto siamo partiti in 24 e siamo arrivati in 19.
Gli altri cinque sono morti?
Li abbiamo persi, non si sa se sono morti. Ci si muove di notte, al buio… A un certo punto ci siamo guardati intorno e ne mancavano prima due e poi tre. Non ci puoi far nulla, sei in mezzo a un deserto immenso, grande un terzo dell’Italia, in piena notte, senza luci: l’unica speranza è che quando sorge il sole becchi la polizia, possibilmente quella statunitense che, tra le due, è la meno peggio.
A parte la polizia, avete incontrato bande criminali? Hai assistito a violenze?
Siamo stati assaltati da una banda, probabilmente gli Zetas, nella zona del Sud. Non ho visto personalmente violenze, perché la notte siamo scappati e io ero tra quelli che è riuscito a fuggire, abbiamo soltanto sentito le urla di chi non ce l’aveva fatta. Poi nel deserto siamo stati assaliti da una banda che ci ha rapinato nuovamente e tenuto in ostaggio per qualche ora, per poi rilasciarci.
Un po’ quello che avviene anche con i migranti nei viaggi verso la Libia…
La situazione è molto simile. Innanzitutto per la balcanizzazione delle bande criminali: come in Libia dopo la caduta di Gheddafi, anche in Messico c’è stata una frammentazione delle organizzazioni che gestiscono gli affari criminali. Da quando il governo ha intrapreso la lotta al narcotraffico, nel 2006, con la cattura o eliminazione dei capi, l’ultimo è stato El Chapo, si è prodotta una atomizzazione, con diverse bande che controllano aree diverse e si scannano tra loro.
C’erano donne con voi durante il viaggio?
Tante. Sono moltissime le donne che viaggiano attraverso il Messico. Fuggono sostanzialmente dalla violenza dei paesi dell’America centrale e anche dalla violenza domestica, purtroppo diffusissima nel Centro America. Soprattutto c’erano moltissime donne incinte. Perché negli USA vige lo ius soli, quindi se nasci in territorio americano sei cittadino americano e i genitori ricevono un permesso di soggiorno in teoria per 18 anni, anche se poi gli americani fanno sempre un po’ come vogliono e magari glielo concedono per 16, ma si tratta comunque di un permesso di soggiorno lungo. Per tale ragione, sono migliaia le donne incinte che intraprendono questo viaggio verso gli USA. Sono le uniche che hanno qualche possibilità di regolarizzarsi, se non loro quantomeno i figli, che nascendo negli States diventano cittadini statunitensi. Diventa un modo per dare un futuro a tuo figlio.
A tal proposito, negli USA, in generale, che atteggiamento c’è verso questi migranti? C’è accoglienza o no?
Dal punto di vista politico no. A guardare la campagna elettorale, soprattutto i dibattiti tra i repubblicani, sembra che facciano a gara tra chi prometta un muro più alto o delle barriere più sofisticate o più diritti di sparare sui migranti. Dal punto di vista sociale le cose cambiano. A New York e San Francisco c’è una certa integrazione, nelle città vige una certa tolleranza. La situazione, invece, cambia in peggio nella campagne del Texas o dell’Oklahoma. Eppure, paradossalmente, tutti i migranti si trovano a dover vivere proprio in quelle zone lì, perché non parlano bene la lingua, sono costretti a lavorare nelle aree agricole, di produzione del mais e della soia, negli stati del sud più conservatori e più razzisti sotto certi aspetti.
Qualche anno fa, Obama promise di far qualcosa per aiutare i “clandestini” centroamericani privi di diritti e di cittadinanza. È cambiato qualcosa?
No. Obama fece questo discorso alla nazione un paio di anni fa. Disse chiaramente una cosa che sanno tutti: cioè che quaranta-cinquanta milioni di persone vivono negli Usa, lavorano, ma non hanno alcun accesso alla cittadinanza e a tutta una serie di diritti essenziali. Promise un cambiamento, diventando un mito per tutti i latino americani, ma in realtà poi non ha fatto niente, anche perché sappiamo che Obama ha le mani legate ormai da quattro anni a questa parte. Non è cambiato nulla.
Torniamo al viaggio. Che umanità hai incontrato? Nel libro racconti anche di tanta solidarietà tra poveri…
Ci sono delle figure bellissime, come “las patronas”, delle signore che si auto-organizzano e la mattina si mettono a cucinare tortillas e fagioli, da lanciare ai migranti sul treno. Buona parte del viaggio, infatti, la fai sul tetto dei treni merci, e queste signore ti lanciano sacchetti di cibo e acqua. Un gesto veramente meraviglioso. Poi ci sono altri gesti un po’ casuali: per esempio, dopo essere stati sequestrati dalla polizia, abbiamo sbagliato la linea del treno. Abbiamo preso la più pericolosa, quella ad est, che invece volevamo evitare. Così, a un certo punto, con altri tre ragazzi decidiamo di saltar giù e di attraversare le montagne per andare sulla linea centrale. Dopo aver camminato, ci fermiamo di notte per dormire ma comincia a piovere. Disperati e congelati, riprendiamo il cammino e al sorgere del sole incrociamo una casa poverissima, con tetto di lamiera e pavimento di terra battuta. Il contadino ci ospita, ci apre casa, accende il fuoco, ci dà da mangiare, da bere, le coperte, ci lava i vestiti. Lui, sua moglie, tre figli ridotti in povertà assoluta, una casa piccolissima, si sono tolti il cibo di bocca per noi. Dopo averci fatto riposare, il giorno dopo, il contadino è riuscito, dopo un bel po’ di tentativi, a far ripartire il suo vecchio furgoncino e ci ha trasportato, rischiando venti anni di carcere, fino alla linea del treno che dovevamo prendere.
Questo confronto tra violenza e umanità cosa ti fa pensare?
Che il Messico è il paese dei grandi contrasti, dove c’è la polizia che ti sequestra e ti deruba, però c’è anche il contadino povero che ti offre da mangiare; la nazione in cui ci sono le bande criminali che ti scuoiano vivo, ma ci sono anche le signore che si organizzano al mattino per lanciarti acqua e cibo mentre sei sul treno. Secondo me la situazione sociale e politica del Messico, non solo attuale, ha fatto sì che si creassero degli estremi. Degli estremi di violenza, delinquenza, criminalità, di bassezza del genere umano, ma anche di bellezza e di umanità. Basta pensare che il Messico è il paese con più di 20 mila desaparecidos e tutti i problemi che sappiamo, ma è anche il paese degli zapatisti e di Pancho Villa.
Sulla questione dei migranti in Messico, come detto, c’è scarsissima attenzione internazionale…
Assolutamente. Eppure in Messico ci sono fosse comuni, dal 2006 a oggi ci sono stati 28 mila desaparecidos e sono sempre dati sottostimati, perché non tutti i migranti che partono e non arrivano fanno parte del gruppo dei desaparecidos. Molti semplicemente si perdono durante il viaggio. Nessuno se ne interessa. L’unica, devo ammettere, che effettivamente sta seguendo la situazione è la Chiesa cattolica. Anche perché la Chiesa, in Messico, è l’unico potere abbastanza forte da poter fare una cosa che sostanzialmente è illegale, ossia aiutare i clandestini. Hanno tutta una serie di albergues, come li chiamano, che sono delle specie di centri di accoglienza in cui i migranti possono riposarsi, lavarsi, mangiare e ripartire.
A tuo avviso, come si potrebbe migliorare la situazione. Cosa manca a livello politico?
Manca la visione sulle cause del fenomeno migratorio. Per noi il migrante diventa un essere umano quando sbarca a Lampedusa. Ci sono due approcci: costruiamo nuove frontiere, nuove barriere, nuovi muri, oppure nuovi campi, nuovi luoghi di accoglienza. Tutto in una logica emergenziale. Nessuno si sofferma a ragionare sul perché scappano. Uno non può pensare che una persona che abbandona la propria casa, la propria famiglia, il proprio lavoro, i propri amici, il posto in cui è cresciuto, intraprende un viaggio dove ha il 30% di possibilità di morire, per andare a 10 mila km di distanza, dove non conosce nessuno, a fare un lavoro mal pagato, lo faccia per divertimento. Lo fa perché è costretto e se noi non riusciamo a capire quali sono le cause che costringono queste persone a intraprendere questo viaggio e non cominciamo ad agire su quelle, allora possiamo mettere tutti i muri che vogliamo e costruire i campi di accoglienza che vogliamo, ma la situazione non cambierà mai.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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