Quando i media hanno dato la notizia della morte di Valeria Solesin, una delle vittime dell’attacco terroristico di Parigi, mi sono venuti i brividi. Così come tutte le volte che ho ascoltato le terribili storie di persone innocenti finite per caso, in Francia come in qualsiasi altro luogo, dentro al fuoco sadico dei terroristi. La storia di Valeria ha commosso e colpito tutti, anche per via del racconto di lei fatto da familiari e amici, relativamente alla sua sensibilità, alla sua attenzione verso ciò che accade nelle parti del mondo più disastrate e dilaniate dalle guerre. Quando ho appreso che Valeria Solesin era stata una attivista di Emergency, ho pensato alle tante ragazze, volontarie dell’associazione di Gino Strada, che ho conosciuto negli anni, al loro entusiasmo, ai banchetti informativi, alle riunioni, alle iniziative.
Poteva essere ciascuna di loro, potevo essere io, poteva essere chiunque di noi, anche qualcuno di quelli che Emergency non l’ha mai amata o sostenuta. È normale, dunque, provare dolore, rimanere umanamente colpiti da questa storia, frutto di una violenza inaccettabile alla quale la famiglia Solesin ha risposto con lucida forza ed esemplare dignità. C’è però un limite, che non riguarda né la gente né tantomeno la famiglia, quanto invece chi rappresenta questo Paese. Al di là dell’emozione e del lutto che ci ha toccato da vicino, la scelta dei funerali di Stato sinceramente non l’ho capita. Non è coerente con un governo che, pochi giorni fa, stringeva la mano ai sauditi (ai quali passa le bombe per colpire, contro ogni regola internazionale, lo Yemen) e dichiarava che le armi vengono vendute dall’Italia ma “rispettando le regole”.
Lo stesso governo che, nel giorno dei funerali, ha deciso di svegliarci con un bel blitz mattutino in un centro di accoglienza per rifugiati, per compiere un assurdo rastrellamento di richiedenti asilo. Una assurda quanto inutile dimostrazione di forza, il biglietto da visita perfetto per eccitare il popolo bue che, ubriacato dai fumi tossici di questa incontrollata e irritante onda emotiva (fortemente reazionaria), chiede restrizioni, pugno duro, fermezza a prescindere dal destinatario di tutto ciò, anche nel caso si tratti di un povero cristo che non ha alcuna colpa.
L’Italia piange, alla presenza del capo dello Stato e del primo ministro, una ragazza che ripudiava il razzismo, le discriminazioni, la violenza e la guerra, nello stesso giorno in cui fa piangere un rifugiato minorenne, terrorizzato da un blitz le cui ragioni non esistono. Comprendo la famiglia Solesin, il suo dolore, la voglia di imprimere nella memoria collettiva l’esempio vitale di una ragazza altruista, dando tra l’altro lezioni di civiltà e di intelligenza a questo Paese pieno di sciacalli razzisti, ma credo che i funerali di Stato siano stati un eccesso che andava rifiutato.
Per le ragioni suddette, ossia per l’incoerenza di chi rappresenta il Paese, ma anche perché si è creata una frattura con altri casi del passato. Mi viene in mente, per esempio, un nome legato a un fatto recente: Giovanni Giancarlo Lo Porto. Siciliano, figlio di gente umile, ragazzo dall’anima gentile che aveva scelto di dedicarsi agli altri, operando come cooperante in zone difficili come il Centro Africa, Haiti e il Pakistan. Lo Porto era stato rapito da terroristi facenti capo ad Al Qaeda nel 2012, al confine tra Pakistan e Afghanistan, dove si trovava, per conto di una Ong tedesca, per un progetto europeo finalizzato ad aiutare la popolazione colpita da un violento terremoto e da una alluvione. Dopo tre anni di prigionia è stato ucciso per errore dal fuoco americano durante un’operazione antiterrorismo. Per lui solo cordoglio, ma nessun funerale di Stato, nessuna autorità massima presente al rito funebre.
Non è una competizione tra morti, sia chiaro, ma in questa diversità di trattamento c’è tutto il senso di una ubriacatura emotiva e collettiva che travalica la ragione. L’emozione per dei fatti che ci hanno toccato da vicino, in questo momento preciso, ha amplificato tutto, impedendoci di pensare in maniera più critica. Se si prova a far notare certi controsensi si corre automaticamente il rischio di spiacevoli fraintendimenti o sfinenti prediche sature di retorica. Tutto, oggi, diventa “fazione”, terreno di scontro, anche quando il silenzio sarebbe la migliore medicina al dolore.
Così capita che questa povera ragazza divenga perfino oggetto di scontro ideologico, addirittura di insulti vergognosi. Accade anche che il suo nome entri nell’ipocrita cordoglio di coloro i quali quelle come lei, da vive, solitamente le disprezzano, le insultano o le etichettano come povere illuse, amiche dei talebani, comuniste alla Gino Strada, e altro ancora. Mi chiedo allora, di questa storia, cosa resterà domani nell’opinione pubblica, dopo che le lacrime e il lutto saranno accantonati e si tornerà a invocare le bombe (e a venderle a chi le usa per sterminare vite innocenti), le restrizioni, la chiusura delle frontiere, i respingimenti e tutte quelle porcherie che Valeria Solesin non avrebbe accettato?
Quanto questi funerali di Stato avranno realmente toccato l’anima di Renzi e quanto influiranno sull’atteggiamento presente e futuro del governo italiano riguardo all’industria delle armi, al rispetto dei diritti dei migranti, alla soluzione concreta della tremenda situazione del Medio Oriente? Probabilmente nulla. Valeria Solesin, al di fuori di familiari e amici, per tutto il resto tornerà a essere solo l’ennesima vittima di una follia assurda che ogni giorno, in Kurdistan come in Siria, in Iraq, in Nigeria e altrove, tortura e uccide altre ragazze come lei di cui quasi nessuno conosce i nomi.
Ragazze come Kader Ortakaya, 27enne turca partita volontariamente per il fronte di Kobane, guidata da idee di uguaglianza e pace, per combattere al fianco dei curdi. Uccisa da un razzo dell’IS. Quella di Kader è solo una delle tante storie che si potrebbero raccontare o che non si potranno mai raccontare. Storie di persone alle quali Valeria non aveva mai voltato le spalle. Esattamente come non le ha mai voltate e non le volta Emergency, forse l’unica realtà che, oggi, insieme agli affetti di Valeria, ha davvero tutto il diritto di piangerla.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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