Un popolo rozzo di camicie verdi, accompagnate da una mandria di nostalgici in nero, la settimana scorsa, ha sporcato la piazza antistante il duomo di Milano. Erano decine di migliaia, attivisti, tesserati, fieramente leghisti o neofascisti, qualche ragazzetto ignorante che strumentalizza Ezra Pound, qualche ultras che si distingue per i rutti razzisti che provengono dalle curve degli stadi italiani. In piazza fisicamente c’erano loro, ma possiamo azzardare che purtroppo è molto più ampio il numero di persone che, più o meno apertamente, avrebbero voluto esserci se solo avessero avuto più coraggio, meno pudore e qualche soldo per pagarsi una trasferta. L’Italia è questa qui, in buona parte. Accanto a Salvini (o dinnanzi a lui ad applaudirlo) avrebbero voluto esserci anche altri, a partire da Grillo, da molti suoi adepti, da La Russa e Meloni, che però erano impegnati in una analoga oscenità di piazza, a Reggio Calabria.
Il retroterra culturale del razzismo è sempre più forte e sta costruendo edifici ampi, dove il cemento è costituito da ignoranza, pregiudizio, malafede, crudeltà, il tutto impastato con i liquami di scarico di una democrazia incapace di difendere i valori fondanti della sua Costituzione. Si parla tanto di legalità, ma troppo spesso in maniera troppo generica, come se i reati o le infrazioni fossero di un solo tipo, attenessero a un’unica colonna con poche righe, dentro alla pagina dedicata a un unico settore criminale. Tutto il resto è derubricato a costume, a “libera espressione del pensiero”, concetto quest’ultimo che diventa farsesco sulla bocca di chi lo reclama nell’insolito ruolo di vittima, dopo averlo appena sfregiato con la veemenza volgare di insulti, auguri disumani, speranze funeste.
Scendere in piazza per urlare slogan violenti di tipo razzista non dovrebbe considerasi libertà di espressione del pensiero, ma un assalto ai principi inossidabili della nostra Repubblica, che non può essere teatro di simili e indecenti spettacoli. Bisognerebbe riflettere sulla legalità della scelta di concedere le piazze alla Lega (per manifestazioni con tali contenuti) o a chi si richiama, per logiche, simboli e slogan, alla dittatura che ha insanguinato questo Paese e partecipato, nel ruolo di carnefice, alla Shoah. Così come bisognerebbe far rientrare nella fattispecie di reato punibile ai sensi dell’articolo 658 del codice penale (cosiddetto “procurato allarme”), i tentativi di costruire politicamente e mediaticamente la paura tra la gente, oggi purtroppo abbondantemente attraversata da un’ignoranza patologica, al punto da attivare meccanismi istituzionali e legislativi su minacce inesistenti.
Lasciando perdere il concetto dell’invasione, che è anch’esso un punto di vista morto, perché immediatamente smentibile con dati ufficiali e tabelle, le urla gracchianti di Salvini, Meloni, La Russa e Grillo (e molti suoi fan club), e le consapevoli bugie di una parte della stampa sul presunto, imminente rischio di epidemia di tubercolosi ed ebola in Italia, andrebbero spente con denunce e condanne. Perché sono azioni di terrorismo psicologico, basate sulla consapevolezza strategica che non importa che tale allarme non sia giustificato e che sia smentito da qualsiasi istituzione medico-sanitaria nazionale e mondiale, l’importante è che sia creduto e produca paura, terrore e, soprattutto, consenso politico verso chi identifica il presunto malato con il nemico e il nemico con lo straniero. Con le conseguenze che tutto ciò determina, come i fatti di cronaca stanno mostrando in questi giorni (ecco un esempio clicca qui), in termini di violenza, discriminazione, ingiustizia.
Un comportamento che, oltre ad essere discutibile sul piano della legge, è decisamente colpevole sul piano morale, politico e culturale. Soprattutto è pericoloso perché, in assenza di una seria e agguerrita risposta politica a tali scempi e con un governo che quando parla lo fa con Alfano, il quale utilizza gli stessi orridi schemi, rischia di far sprofondare definitivamente il Paese dentro a una voragine culturale e umana da cui non ci si può attendere nulla di positivo. È brutto richiamarsi all’esigenza di una legge o di un principio costituzionale, quando si contrastano quelle che pretendono di essere considerate idee, ma quando quelle idee, in verità, altro non sono che pistole puntate sulla vita e sul destino di persone innocenti, con conseguenze concrete, non vengono in mente strumenti di tutela diversi dalla denuncia o dalle sanzioni legali.
Almeno finché decidiamo di non uscire dal salone della democrazia. Perché nel giardino dell’anarchia o nello spiazzale polveroso del far west, ci si potrebbe difendere diversamente, ma sarebbe una tragedia. E alla tragedia è sempre preferibile la legalità. Purché funzioni.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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