Il mio amico e (ottimo) collega Antonello Mangano, poco più di due settimane fa, ha pubblicato su l’Espresso (leggi qui) un’inchiesta su Vittoria e sulla condizione terribile delle lavoratrici rumene nelle campagne della omonima piana, nella parte occidentale della provincia di Ragusa. Lavoratrici a bassissimo costo, ma soprattutto vittime di un ricatto mostruoso, fatto di ripetute violenze sessuali da parte dei padroni, dei familiari e degli amici di questi. Una storia che conoscevo e che va avanti da anni, nell’indifferenza dell’opinione pubblica, delle istituzioni, di una parte della stampa. Per fortuna, però, non di tutti. Perché c’è stato anche qualcuno che a tutto ciò si è ribellato. Padre Beniamino Sacco (di cui anche Antonello scrive nel suo articolo) ha denunciato già anni fa il fenomeno, dandosi da fare per liberare queste moderne schiave e subendo per questo numerose intimidazioni.
L’orrore, però, continua ugualmente, perché il fenomeno è diffuso e si svolge nel silenzio e nel buio delle campagne, dei casolari, delle serre che danno i prodotti che finiscono sulle nostre tavole. Prodotti spesso sporchi di sangue, lividi e graffi, segni indelebili della violenza di sfruttatori senza scrupoli, di maschi bestiali che azzannano la carne e l’anima di queste donne. Il tutto in un’Italia che toglie diritti e dignità, un’Italia in cui accade perfino che le signore (?) del posto diano la colpa alle vittime, alle “rumene”, indicazione geografica che viene di colpo trasformata in etichetta dispregiativa.
Donne italiane, dunque, che alla violenza di uomini bruti aggiungono quella verbale e psicologica nei confronti delle vittime con cui, invece, dovrebbero solidarizzare e che dovrebbero anzi aiutare a ribellarsi.
L’ho respirato tante volte il puzzo marcio di questo razzismo, questo irritante verdetto “etnico” di colpevolezza all’incontrario. Lo sento spesso anche qui al nord, sulla bocca crudele di ragazze e signore italiane (soprattutto quelle con le borse firmate, le scarpe lussuose e l’indifferenza a prezzo di saldo), le quali, per coprire la sporcizia morale dei loro fidanzati, mariti, padri, figli e fratelli, cuciono un velo di offese e di accuse razziste rivolte a donne provenienti dall’estero, anzi da una precisa area geografica a cui attribuire usi e comportamenti totalmente falsi. Mai una volta che pensassero alla violenza subita, a cosa significhi uno stupro, a quanto sia disumano trovarvi una giustificazione di qualsiasi tipo. La solita ipocrisia dell’italiano (o italiana) che di solito strepita di fronte a un reato, anche meno grave, commesso da un cittadino straniero, e poi rifiuta di prendere coscienza delle proprie responsabilità e della crudeltà della propria gente, quando lo straniero (o straniera) ne è la vittima.
A Vittoria, come in altre parti d’Italia (basti pensare a quanto raccontato, in passato, da Fabrizio Gatti a Foggia), sono tantissimi e frequenti gli stupri nei confronti di lavoratrici straniere, senza diritti, sotto ricatto, costrette a subire per non perdere l’unico diritto a cui provano ad aggrapparsi: quello alla sopravvivenza. Lavoro sottopagato e alloggio misero, in cambio di qualsiasi servigio sessuale. Se ti rifiuti ti minacciano e rischi, come minimo, di non lavorare più e di non poter far mangiare i tuoi figli. Schiavismo sessuale, in cui i carnefici sono maschi, soprattutto italiani, che poi possono raccontare le loro avventure e sentirsi forti e belli, “machi”, magari omettendo la parte fondamentale: il ricatto.
Un’abitudine che il maschio nostrano evidentemente non ha perso. Una volta, gli italiani medi (e anche parecchio schifosi) partivano verso l’Est europeo, che era ancor più povero di adesso, con le valige piene di calze da donna e di penne. Andavano lì e sfruttavano la miseria della gente, regalavano qualcosa in cambio di favori sessuali di cui poi vantarsi al ritorno in patria. Qualcuno ancora pare faccia lo stesso a Cuba, in alcune zone del Brasile, in Asia e in tante altre parti del mondo, se è vero che gli italiani di qualsiasi età risultano avere il primato del turismo sessuale (con vittime sempre più giovani e spesso bambini) e nello sfruttamento sessuale della povertà altrui. La testa non è mai cambiata. Il maschio, ossessionato dall’idea di sentirsi “conquistatore”, si compra la preda con qualsiasi mezzo. Adesso lo fa direttamente in Italia, a casa propria, ampliando l’ambito di applicazione della costrizione e del ricatto.
Don Sacco e le associazioni che da anni si battono contro questo squallore, contro questa violenza terribile, sono riusciti a salvare molte donne dall’inferno, ma lo Stato, quello che dovrebbe intervenire con retate, condanne, celle che si chiudono e sequestri di campagne e aziende agricole, non c’è. D’altra parte siamo nel Paese che odia le donne, la patria del femminicidio, delle norme che non consentono ancora di fermare in anticipo un potenziale assassino, delle sentenze della Cassazione che riducono le pene per lo stupro e ammettono assurde attenuanti. Siamo soprattutto nel Paese nel quale del destino dei migranti, alla maggior parte dei cittadini, non importa niente, e nel quale davanti alle vittime di una violenza terribile come quella di Vittoria si ragiona con un agghiacciante “ben gli sta!”. Perché è chiaro che, nonostante i fatti di cronaca di cui tv e giornali sono pieni, gli italiani continuano a considerarsi “brava gente”, incapace di compiere misfatti di tal genere.
Così, nel perverso immaginario collettivo, i carnefici diventano vittime e sulle vittime si scarica il peso di una colpa che non hanno. Le istituzioni e la politica, specchio triste di questo Paese, ripropongono la stessa logica senza far nulla per ristabilire un minimo di giustizia e garantire il rispetto dei diritti umani in aree che, da anni, sono teatro di tale inaccettabile miseria morale. Allora ci sarà sempre qualcuno che ne scriverà, qualche altro che si indignerà per un paio d’ore o un giorno, la maggioranza che se ne infischierà. E poi, sul campo, ci saranno quei pochi giusti che, con mezzi ridotti e spirito di sacrificio, faranno il possibile, tra difficoltà e minacce, per salvare qualcuno e restituirgli un po’ di libertà e di vita. Ma la violenza non si scompone, li mette in conto questi “disturbatori”, perché sa che, tanto, molte altre vittime rimarranno costrette a saziarla. Nel silenzio complice di un’Italia indifferente e di uno Stato immobile.
Massimiliano Perna – il megafono.org
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