Ricordo ancora che quando scoprii che la serie tv I Soprano riscuoteva un successo enorme negli Stati Uniti, venendo a creare la solita familiarità fra telespettatori e protagonisti (la famiglia di un boss italo-americano), l’irritazione fu notevole. Per gli stereotipi frettolosamente appiccicati ai tanti emigranti italiani in America e per la rappresentazione in chiave di commedia di un boss e dei suoi parenti, operazione che rende sempre più annacquata la dimensione sporca, sanguinosa e crudele delle organizzazioni criminali. In Italia, successivamente, è arrivato “Il Capo dei Capi”, film tv sulla carriera criminale di Totò Riina. Una porcheria, inutile usare giri di parole. La maniera peggiore di far conoscere alla gente, soprattutto ai più giovani, il fenomeno mafioso, lì rappresentato nella veste di un uomo potente, vincente e imbattibile. Anche in questo caso, la familiarità assunta da un personaggio (e relativo linguaggio) sdoganato dalla sua realtà e reso in qualche modo popolare è quanto di più nocivo possa esserci su uno schermo.
Ma è fiction, si dirà. Peccato, però, che in questo mondo (e ancor più in questo paese) in cui si semplifica tutto e lo si porta agli estremi della banalità, poi accade che si finisca per affrontare e valutare ogni cosa come fosse commedia, anche laddove i contorni sono tragici ed esiste un pericolo concreto che fa rima con la sottovalutazione e con scenari odiosamente ripetitivi. La questione delle parole che proprio Totò Riina ha pronunciato in carcere durante le conversazioni intercettate dagli inquirenti con Alberto Lorusso, affiliato alla Sacra Corona Unita, sta assumendo, attraverso i media, una dimensione grottesca. Ogni giorno spuntano nuove parti delle intercettazioni, con pagine di giornali che si riempiono, trasmissioni televisive che spesso lasciano parlare commentatori di infimo livello che di mafia capiscono quanto un calciatore capisce di fisica quantistica. Tutto viene infilato dentro un pentolone mediatico, mischiato con elementi, persone e opinioni che non c’entrano nulla.
Forse a qualcuno sfugge il fatto che questa non è una fiction né un appuntamento quotidiano con i partecipanti ad un reality. Il carcere di Opera non è la casa del Grande Fratello, le parole di Riina, pur contenendo alcune opinioni farneticanti in quanto proprie di un ignorante incallito (e quanta rabbia a pensare che uno così ha messo in ginocchio una nazione civile), non sono gli sproloqui di un disperato che non conta niente, né recite finalizzate ad accrescere l’appeal mediatico e la possibilità di future carriere politiche di un magistrato, come sostiene qualche giornalista che con stolta superbia allude, minimizza, inietta un veleno che per fortuna abbiamo imparato a riconoscere. Perché è lo stesso che serpeggiava poco più di venti anni fa, ai tempi dell’attentato all’Addaura, ai tempi di Falcone e Borsellino bersagliati come mai nessuno dal tiro incrociato di giornalisti, politici, magistrati, intellettuali.
Non abbiamo imparato niente. Non abbiamo imparato nemmeno a capire che uno come Riina non ha mai smesso di comandare, di mandare messaggi. Il boss corleonese è sempre lui e molte delle sue parole si mischiano tra sentenze, come quella di condanna a Di Matteo, e avvertimenti, come quelli neanche tanto velati ai politici, ai complici delle stragi che oggi si nascondono, cercano di sfuggire alle loro responsabilità. In mezzo, c’è tutto lo squallore di un uomo che si bea della propria crudeltà, che ricorda gli anni della strategia stragista con lugubre malinconia, un boss che invita la mafia a riprendere quella stagione, apostrofando negativamente la tattica dell’affarismo silenzioso di Matteo Messina Denaro, segno che dentro l’organizzazione qualcosa si sta muovendo e gli equilibri sono in bilico. Una situazione di estremo pericolo, che in troppi stanno sottovalutando.
Come fecero allora. Il giudice Di Matteo rischia seriamente di pagare le conseguenze di questa logica da fiction in cui stanno cascando in troppi. Il coro dei corvi e dei saltimbanchi ben assemblati nel circo delle tv, il voyeurismo in stile reality che sta pervadendo i giornali e il web, rischia davvero di dare una mano a chi ha compreso pienamente, da mafioso spietato e nervoso, che oggi è molto più semplice lanciare messaggi e far arrivare in modo rapido e diretto gli elementi di quello che sembra una specie di nuovo “papello”. Sappiano, i colleghi, che la pubblicazione di quei testi, la costante e morbosa diffusione delle parole di Riina, non c’entra nulla con il diritto di cronaca, con l’informazione, perché a volte bisogna capire i limiti e comprendere che oltre quei limiti si rischia di diventare veicolo e strumento.
Perché Riina, a differenza di quel che sostiene qualche incompetente frequentatore dei salotti televisivi, non è uno sprovveduto, né un povero vecchio di 84 anni fuori dai giochi. La sua parola fa tremare, le sue promesse non sono false. La mafia non scherza. Soprattutto quando c’è uno Stato che ci ha trattato e forse è ancora chiuso nei sotterranei a trattare con i rappresentanti di Riina. Allora perché continuare ossessivamente a fare da megafono alle sue parole? Che tra l’altro, quando si riferiscono ai delitti eccellenti come ad esempio le stragi del ’92 o l’omicidio Dalla Chiesa, sono agghiaccianti, terribili e fanno male.
Invece di ascoltare ogni giorno queste conversazioni, non sarebbe sufficiente sapere che il rischio è elevato e pensare a stringersi attorno ai magistrati oggetto delle sue “attenzioni”, creando quel consenso e quella solidarietà che tanto fanno imbufalire chi (cioè la mafia) ama colpire chi rimane solo? Sarebbe molto meglio che ci si fermasse, lasciando che siano gli inquirenti a conoscere e decifrare i contenuti dei discorsi del boss e ad adottare le contromisure. Soprattutto delle parti più rilevanti, dato che sapere cosa ne pensa la belva corleonese del Papa o di Barbara Berlusconi è assolutamente inutile. Perché, lo ripetiamo, questa non è una fiction. Né un reality. Mettiamocelo in testa.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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