In una nazione normale, pur in presenza di una anomalia gigantesca, come l’avere quattro mafie autoctone radicate nel proprio territorio, le istituzioni e le persone dotate di onestà e dignità dovrebbero opporsi, compatte, alla criminalità, rifiutarne le logiche, non accettarne le eventuali convenienze, farle terra bruciata intorno per impedire ai semi marci di far sbocciare la malapianta. In un Paese normale, in nome di tale unità di intenti, valori e azioni, nessuno di coloro che si oppone dovrebbe trovarsi a farlo da solo. Né sotto scorta. Un Paese nel quale scrittori, giornalisti o attori finiscono sotto protezione è un edificio in equilibrio precario.
Giulio Cavalli è un attore, ma soprattutto un bravissimo autore, che sa come mescolare le parole per tirarne fuori frecce che spesso ti aprono un sorriso e nel contempo ti sbattono in faccia la verità, quella più scomoda, che riguarda i liquami del malaffare e della corruzione incrostati nelle fessure della facciata ipocrita di una borghesia economica e politica che della borghesia conserva solo i vizi e che vive nell’assuefazione a un cattivo odore scambiato consapevolmente per aria pulita. Giulio è un uomo giovane, di un’intelligenza rara, che ha deciso di non tacere, di non lasciare che le mafie continuassero a proliferare e ad allungare i propri tentacoli a 100 passi dal Duomo di Milano e nell’intera Lombardia.
La cultura e l’ironia come strumento di lotta, uno strumento che riesce a far paura ai boss quasi quanto un’operazione di polizia. A volte anche di più. Perché se un messaggio passa, se si riesce a smontare con la forza delle parole l’immagine di potere e di intoccabilità degli affiliati e dei loro capi, costruita con il sangue e con un’ampia letteratura (anche cinematografica) ricca di stereotipi, si rischia di dar coraggio a chi viene ad ascoltarti a teatro o a chi ti legge. È una vecchia storia. Con protagonisti importanti, come Peppino Impastato, Giancarlo Siani, Pippo Fava, Beppe Alfano, Mario Francese, Roberto Saviano, solo per citarne alcuni. Le parole danno fastidio, creano coscienza, aiutano a riflettere arrivando a toccare le corde più recondite dell’anima. Sollecitano ripensamenti, spingono ad agire.
Giulio Cavalli è diventato un bersaglio, ancor di più quando dal teatro, dal palcoscenico, quelle parole le ha portate dentro le istituzioni, nel Consiglio Regionale della Lombardia, la regione nella quale la ‘ndrangheta spadroneggia, fa i suoi affari, uccide, controlla, minaccia, decide. La regione di Giulio e delle sue denunce portate in Consiglio, delle segnalazioni, dei nomi e cognomi che mettevano in imbarazzo chi avrebbe voluto conservare un proficuo silenzio. Regione Lombardia, quella che ha visto la giunta Formigoni (in carica da circa 18 anni) dimettersi e decadere per via dell’arresto del suo assessore alla Casa, Domenico Zambetti, finito in manette per voto di scambio. Comprava i voti dalle ‘ndrine. Si ricomincia. Nuove elezioni. Giulio rimane fuori, non eletto. Ha scelto di restare nel suo partito, di giocarsela sul filo, in una terra che dimostra di non voler cambiare.
Il mirino ormai è su di lui, da anni, dai suoi primi spettacoli a Lodi, anche perché il suo impegno prosegue, al di fuori della Lombardia. Da Roma, dai vari luoghi d’Italia che lo invitano e lo ascoltano. Le intimidazioni proseguono, due collaboratori di giustizia rivelano nel dettaglio il progetto di morte che la ‘ndrangheta aveva preparato per lui. Un camion, racconta il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura, o un mezzo pesante, una jeep che lo avrebbe investito nel momento stesso in cui Giulio si sarebbe trovato senza scorta. Già, perché qualcuno aveva pensato di togliergliela la scorta. Una condanna a morte. Con un obiettivo preciso: non farne un martire. Che anche la ‘ndrangheta ha imparato la lezione: se uccidi qualcuno che ha un seguito devi prevedere una risposta forte, affrontare l’ondata di indignazione, la reazione dello Stato con un maggior controllo del territorio.
Troppo caos, troppo rumore che disturba gli affari. Meglio un incidente. Che magari poi anche se qualcuno non ci crede e sospetta, deve pur sempre dimostrarlo. Ci vuole tempo, ci vogliono indagini, anni. E in questo Paese, che non è per niente “normale”, il tempo gioca a favore della menzogna e del mistero, perché la verità viene ingabbiata in depistaggi, corruzioni, silenzi complici, ricatti. E rischia di annacquarsi, a meno che non ci sia qualche “pazzo” disposto a urlare ogni giorno, senza sosta, senza cedere alla fatica e all’alone di rassegnazione e isolamento che in tanti gli costruiscono intorno. Per fortuna, qualcuno ha parlato. Per fortuna Giulio è stato avvisato. Così c’è chi ha pensato bene di piazzare una pistola carica sotto la finestra di casa sua a Roma. Con il colpo in canna. Intimidazione? Forse più un attentato. C’è il segreto istruttorio e le indagini stanno cercando di capire meglio.
Rispondendo a una mia domanda, Luigi Bonaventura, mi ha detto che secondo lui, che la ‘ndrangheta l’ha vissuta dall’interno, da protagonista, l’obiettivo era di piazzare lì l’arma per poi usarla contro Giulio. “Non si spreca una pistola per un’intimidazione. Si otterrebbe lo stesso effetto spendendo meno, piazzando dei semplici proiettili, non un’arma”. Volevano ucciderlo. Ancora una volta. E che se lo mettano bene in testa quelli che, in questi mesi, hanno parlato a vanvera di Giulio, della sua scorta inutile, del suo presunto cambiamento in negativo. Se lo mettano in testa quelli che invidiano una vita da scortato celebre, dimenticando che uno scortato celebre pagherebbe per fare a cambio con un cittadino qualunque.
Se lo ripetano giorno per giorno, come un mantra, che una persona può anche risultarti antipatica, avere un carattere spigoloso, ma rimane pur sempre uno che combatte contro chi ci è nemico e pertanto, dinnanzi a certe notizie, bisognerebbe reagire con meno indifferenza o freddezza. Perché Giulio è vivo ed è ancora sotto tiro. Probabilmente lo sarà sempre, visto che le mafie non dimenticano. L’antimafia, invece, spesso dimentica che prima di combattere il nemico esterno, bisogna imparare a combattere contro i sentimenti bassi, le disgregazioni, le delegittimazioni e l’isolamento che la infetta all’interno. Se ci riuscisse questa volta, anche Giulio sarebbe meno solo e meno esposto. Perché la maniera migliore di onorare la memoria di chi non c’è più è pensare anche ai vivi. Che sono ancora in lotta accanto a noi. Per noi.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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