Due ragazze, una di 21 e l’altra di 11 anni. Separate da secoli di vita, ma così tremendamente e diversamente protagoniste, loro malgrado, di una storia dai tratti paradossali che ci aiuta forse a definire un’epoca. Due storie diverse e due destini, per fortuna, diversi, si trovano a rendere manifeste le differenze tra i morti e i vivi, tra ciò che spetta e ciò che oggi riserviamo agli uni e agli altri. La prima è una donna vissuta circa 1700 anni fa, morta tragicamente, e le cui spoglie sono state aspramente contese da due città importanti. È la storia di una ragazza che, per seguire la sua fede, si ribellò a un destino già scritto. Una ragazza poi divenuta santa e venerata in molte parti d’Italia e non solo, ma soprattutto nella sua città di origine: Siracusa. Santa Lucia, simbolo di fede, oggetto di culto e devozione, è stata celebrata in questi giorni, il 13 dicembre. Il giorno successivo, a Siracusa, direttamente da Venezia, dove riposano da secoli dopo essere state trafugate, sono arrivate le sue reliquie, cioè quelli che dovrebbero essere, al netto di dubbi e diatribe varie, i resti del suo corpo mortale.
Un momento segnato da una grande attesa, da un entusiasmo acceso, dalla fibrillazione di fedeli, cittadini, istituzioni ecclesiastiche, politiche, militari e civili. Il corpo di Santa Lucia, trasportato da un aereo militare e poi da un elicottero, è stato accolto con tutti gli onori, con una grande messa, ricevendo l’attenzione spasmodica della stampa e suscitando l’eccitazione manifesta delle autorità, delle istituzioni locali e delle forze politiche. Un evento salutato con commozione, in una dimensione quasi trionfalistica che solo le province sono capaci di rendere così tangibile, così emotivamente gonfia di significati anche ulteriori rispetto a quello più importante e simbolico che attiene alla fede.
Il ritorno, seppur momentaneo, del corpo trafugato di quella figlia celebre dell’antica città mediterranea, ha messo in moto una macchina notevole, ha idealmente unito Siracusa in questo abbraccio teso verso i resti di una santa alla quale affidare il destino di questi luoghi e delle vite dei suoi cittadini. Accoglienza è la parola che rileva e sembra farlo nel suo valore più intimo e profondo. Un’accoglienza che è arrivata da tutta la comunità cittadina, senza voci dissonanti, in un clamore generale, motivato dalla simbologia della fede, che vede in quelle ossa, in quel corpo morto esposto dentro una teca, la raffigurazione umana della santità e della sua suggestiva potenza.
La seconda protagonista di questa storia, è una bambina dei giorni nostri, ha solo 11 anni, si chiama Jacinta, viene dalla Sierra Leone, e ha già vissuto l’incubo più grande, quello di trovarsi da sola, di notte, aggrappata a una speranza che aveva la forma di due camere d’aria e un giubbotto salvagente. Non si è ancora capito da quanto tempo si trovasse in mare, quando la notte tra il 10 e l’11 dicembre è stata trovata e salvata, al largo di Lampedusa, dalla nave Trotamar III dell’ong tedesca Compass Collective, che era in zona perché diretta a sud dell’isola per soccorrere una barca segnalata in difficoltà. Jacinta dice di essere partita da Sfax, in Tunisia, su un barchino che è poi affondato e sul quale, secondo il suo racconto, sono partiti in 45, incluso il fratello. Inoltre, la bambina afferma che in acqua con lei erano rimaste altre due persone, poi scomparse.
Al di là delle indagini che stanno cercando di ricostruire la vicenda dai contorni ancora non definiti, Jacinta è una bambina che, alla sua età, ha dovuto lasciare tutto ed è salita su una imbarcazione per tentare la sorte, per provare ad arrivare in Europa e a cambiare il proprio destino. Per accendere la speranza in un futuro migliore. Come Lucia, anche Jacinta si è ribellata a un copione già scritto, con la morte già pronta a rinchiuderla nel silenzio delle onde, a inghiottire l’ennesima vita della quale non avremmo saputo nulla, né il nome, né il vissuto o i sogni futuri. Solo il Mediterraneo l’avrebbe accolta, in quell’immenso cimitero umido, profondo e buio nel quale luccicano migliaia di volti e nel quale riposano migliaia di ossa senza nome, corpi sottratti alla vita e finiti lì senza alcun rito, senza alcuna espressione di fede. Jacinta, invece, è arrivata a terra, viva, grazie alla presenza di una delle ong che pattugliano quel tratto di mare, il Mediterraneo, lo stesso che la politica europea e quella italiana hanno progressivamente e scientificamente svuotato di testimoni e di mezzi di soccorso.
Jacinta è arrivata, ma non è stata ricevuta dagli onori, dall’entusiasmo, dalla festosa accoglienza dei cittadini. Ha ricevuto la solidarietà solo di chi ha ancora idea di cosa sia l’umanità, ha potuto disporre della tutela che la legge impone soprattutto per quel che riguarda i minori. Ma nulla più. Nessun elicottero a portarla via verso un luogo di gioia, verso una comunità festante e stracolma di fasce tricolori, giornalisti emozionati, vescovi e fedeli pieni di felicità. Nessuno si contende la sua presenza, nessuno lotta e litiga per ospitarla nella sua città. Jacinta non è un corpo inerme da venerare, né un simulacro, ma nemmeno un cadavere da aggiungere alla fila dei tanti altri che sono arrivati sulla banchina del porto di Lampedusa. Lei è viva e ha tante “colpe”: quella di essere migrante, quella di essere africana e nera, ma soprattutto quella di non essere morta. Perché, al di là dei santi e delle venerazioni relative, anche i morti comuni danno meno fastidio.
Al massimo si celebra una messa, si compra una bara, si trova un posto a terra in un cimitero, da contrassegnare con una croce di legno e un numero. Due pizzichi di retorica e di promesse, se proprio non si vuole apparire parchi, qualche frase per scaricare sugli altri la responsabilità, due parole sul traffico di esseri umani e sull’importanza non di sgominarlo, ma di chiudere le porte, in modo che tutto l’orrore si svolga fuori dai nostri confini. Possibilmente in Paesi con i quali ci siamo accordati affinché le vittime di quell’orrore non oltrepassino il Mediterraneo. Jacinta, invece, è un problema, è la nota stonata, l’ennesima fotografia di un sistema crudele che il nostro governo, tra un inutile slogan e una frase razzista, nutre e sollecita. È il governo della strage di Cutro e della guerra alle ong, il governo che ha un ministro sotto processo per aver sequestrato delle persone e aver impedito loro per giorni di approdare in porto, come invece prevedono tutte le norme internazionali.
Ecco perché la destra, questa destra, non ha saputo nemmeno dire una parola, esprimere un pensiero, una qualsiasi forma di empatico benvenuto a questa bambina di 11 anni finita in mare, tra le onde, salvata da una di quelle ong che Meloni e i suoi combattono e perseguono. Un silenzio, quello del governo e delle forze di maggioranza, che conferma la loro incapacità di distaccarsi, anche solo per un attimo, dalla linea politica, che purtroppo coincide perfettamente e in qualsiasi istante con la loro dimensione umana, o meglio disumana. Un silenzio che coinvolge anche e soprattutto i cittadini italiani, sempre più incattiviti, sempre più lontani dall’amore verso il prossimo che molti di loro ripetono in chiesa e nelle celebrazioni religiose.
Lucia, evidentemente, la osannano in tanti, ma in pochi, per non dire pochissimi, hanno realmente introiettato il messaggio di altruismo e di vera compassione che deriva dalla sua esistenza terrena. E questa sorta di distonia è qualcosa che non tocca solo la fede e i fedeli, ma anche i cittadini e i valori fondanti della Costituzione laica che regola la nostra Repubblica democratica. Una Repubblica nella quale, in questo come in altri ambiti, per essere onorati e omaggiati, o quantomeno considerati, spesso sarebbe meglio non essere vivi.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
Bellissimo articolo