12 dicembre 1969, Milano, piazza Fontana. Una data che è impossibile dimenticare. Eppure, nei testi scolastici, la storia del Novecento italiano non trova lo spazio per raccontare quello che è un nodo cruciale nella storia contemporanea di questo Paese: la stagione delle stragi e la strategia della tensione. È un aspetto che rappresenta ancora una vergogna drammatica e che rimane ai margini della narrazione, considerato divisivo e per questo escluso, o espulso, dal percorso didattico. È l’antica tradizione della scuola italiana che, quando proprio non è possibile parlare di qualcosa di scomodo sul piano sociale e politico, ma che diventa storia, sceglie di minimizzare senza mai entrare nel merito: è accaduto, per esempio, con la storia del colonialismo italiano, governo liberale prima e governo fascista poi, e dei suoi crimini. Nel caso specifico, dell’intera stagione delle stragi e della “strategia della tensione” se ne parla soprattutto come della stagione degli “opposti estremismi”.
È una strada fuorviante, utile per non parlare delle responsabilità e del ruolo di primo piano dello Stato e dei suoi apparati politici, militari e di polizia, in quello che la storia stessa ha dimostrato essere un disegno eversivo finalizzato alla creazione di una situazione di tensione sociale e politica destabilizzante, per favorire così l’avvento di un governo autoritario e repressivo. Di quegli anni tutto è chiaro oggi, ma lo era anche allora per chi rifiutava l’inganno ordito dall’arrogante macchina del potere. Una macchina capace di muovere tutte le sue leve per confondere, depistare, proteggere. Le verità giudiziarie arrivano sempre dopo molto tempo, spesso non arrivano mai. La strage di piazza Fontana è stato il segnale che una stagione decisiva era pronta e non voleva più aspettare: c’era un ‘68 appena passato, con quel vento di ribellione, contestazione e speranza che milioni di giovani avevano portato nelle strade e nelle piazze, c’era un “autunno caldo” che vedeva protagonisti i lavoratori come mai prima di allora.
Quel vento e quel biennio di lotte sociali andava fermato, e per fermarlo occorreva seminare il terrore e la paura, occorreva che il “pugno di ferro” dello Stato facesse capire che tutto era sotto il suo controllo e il suo volere. Serviva però un pretesto per scatenare la reazione e, dopo il pretesto, serviva un capro espiatorio che permettesse allo Stato di dimostrare tutta la sua capacità di risposta. È in questo contesto che si arriva al 12 dicembre, è questa la genesi della strage alla Banca dell’Agricoltura di Milano. La bomba arriva e quel giorno cancella 17 vite, 17 storie. Ma non basta, ci vuole qualcosa ancora: serve il capro espiatorio, il colpevole da gettare in pasto alla stampa e all’opinione pubblica. E, quel colpevole, si trova immediatamente: è il movimento degli anarchici. Così la storia si arricchisce di altro sangue e altra vergogna, qualche giorno dopo. Il diciottesimo nome che si aggiunge all’elenco delle vittime è quello di Giuseppe Pinelli, Pino, il ferroviere anarchico, partigiano, uomo libero.
Nelle stanze dell’Ufficio politico della questura di Milano, lo Stato è presente. È una presenza macabra, un’ombra che si macchia di un assassinio prima taciuto e nascosto e poi negato e protetto. I nomi dei rappresentanti di quello Stato li conosciamo, perché la storia li ha rivelati uno ad uno. La verità storica esiste, è quella giudiziaria che manca sempre. Il 12 dicembre 1969 è una di quelle date che cambiano il corso della storia di una nazione, la strage di piazza Fontana è la prefazione del libro delle “stragi di Stato” che negli anni successivi aggiungerà nuovi capitoli e nuovi lutti incancellabili.
12 dicembre 2024, Milano, piazza Fontana. Milano riempie ancora quella piazza, 55 anni dopo, ed è molto più di un omaggio alla memoria della strage: è una presenza in difesa di quel valore invisibile ma fondante che si chiama democrazia. Un valore che, oggi come ieri, subisce l’attacco delle forze reazionarie sempre presenti nel Paese: l’attacco alla Costituzione, con leggi e decreti repressivi, con censure e bavagli, apre la porta a quella “democrazia illiberale” che già in altri Stati europei si è affermata e dove non esiste spazio per il dissenso. La stagione delle stragi appartiene ad un passato che in molti provano a riscrivere, o dimenticare, in un Paese dove è sempre forte e pericolosa la spinta di una destra autoritaria che, nel corso degli anni, è riuscita a conquistare consensi fra i cittadini e posizioni di vertice nelle istituzioni.
Lo scenario politico di oggi ci presenta coincidenze difficili da ignorare o sottovalutare: “Il piano di rinascita democratica” – caposaldo del programma della loggia massonica P2 – indicava chiaramente la strada da seguire per arrivare a sovvertire il quadro politico e sociale dell’Italia. Quel piano sosteneva la necessità di modificare la Costituzione per poter poi agire liberamente su altri punti essenziali: la riforma della magistratura e la separazione delle carriere; la piena responsabilità del CSM nei confronti del parlamento; la responsabilità civile dei magistrati; la non rieleggibilità del Presidente della Repubblica; la riforma del mondo del lavoro con l’inevitabile ridimensionamento dei sindacati; la trasformazione delle università in fondazioni private; il controllo sull’informazione e, soprattutto, il ruolo assoluto del presidente del Consiglio eletto direttamente dalla Camera all’inizio di ogni legislatura. Tutti questi obiettivi, causalmente, coincidono con gli stessi dell’attuale governo Meloni e dei suoi alleati che, intanto, lavorano sulla proposta di premierato.
Non meno allarmanti e pericolosi sono il consenso e l’indifferenza con cui gran parte del Paese approva o assiste agli squilibri di una nazione sempre più spaccata e impoverita a livello politico e sociale. È in queste spaccature e divisioni che la destra riesce a tessere la sua tela di ragno. Alimentare le tensioni, che avvelenano il pozzo e contribuiscono a destabilizzare il Paese, implica attraversare molte strade: una di queste è sicuramente la campagna razzista nei confronti dei migranti e dei richiedenti asilo che, oltre ad emarginare gli ultimi e indicare nei CPR la strada maestra, criminalizza le Ong e rende la vita impossibile a chi è testimone nel Mediterraneo e salva vite umane. L’ennesimo decreto flussi approvato al Senato va in questo senso. Sullo sfondo di questa “nuova destra” rimangono inoltre tutte quelle zone, difficile definirle zone d’ombra, che fanno riferimento agli ambienti della destra eversiva: la recente inchiesta sull’Ordine di Hagal, nata dalla Procura di Napoli, ha portato alla luce la cellula neonazista di Bologna. Volti e nomi conosciuti da sempre nella galassia neofascista in Italia, già coinvolti nella storia nera e stragista dell’Italia. È il gruppo definito dei “lupi mannari”, dove emergono figure storiche dell’ultradestra italiana.
Ecco allora perché il 12 dicembre di Milano non è solo il ricordo di una strage fascista e di Stato. Quella piazza e quel corteo, dopo 55 anni, hanno il volto una memoria che cammina e che non si arrende. Esiste una democrazia che, anche quando appare “invisibile”, rappresenta quel valore che la rende diversa da ogni autoritarismo e da ogni “Stato di Polizia”. Quel valore va custodito e difeso, sempre. La storia non si riscrive, la storia è lì con le sue pagine e con le sue vittime. Infine, ma non ultimo, questo 12 dicembre, in piazza Fontana, aveva un dovere da compiere: il saluto e l’abbraccio che una piazza e una città devono ad una donna speciale. È Licia Rognini Pinelli, la vedova di Pino, scomparsa poche settimane fa. In quella stanza dell’Ufficio politico della questura di Milano, lo Stato le ha rubato il compagno di una vita e non ha mai avuto il coraggio di dirle la verità.
Ci sono voluti decenni perché qualcuno chiedesse formalmente “scusa” e le stringesse la mano, ma non può bastare. Ci sono una città e uno Stato che, per troppo tempo, hanno taciuto mentre lei continuava a camminare con dignità portando sulle sue spalle il peso di una vita rubata da quello Stato incapace anche di vergognarsi. Licia ci ha lasciato l’11 novembre scorso. La stagione delle stragi, le bombe e la strategia della tensione sono state anche questo, vite rubate e distrutte per sempre. Nei testi scolastici non se ne parla, forse un giorno…chissà. È vero, il 12 dicembre per molti è un giorno divisivo. Che strano, c’è chi dice la stessa cosa anche del 25 aprile. In fondo è vero, è divisivo: perché da una parte c’è il profumo della lotta e della dignità, dall’altra c’è solo il fetore del fascismo, della vigliaccheria e del potere.
Maurizio Anelli -ilmegafono.org
Tutta la verità a definire ” divisive” le due date.