Quando si pensa al giornalismo, al suo ruolo e alle sue responsabilità nella società, ognuno di noi dovrebbe interrogarsi su cosa si aspetta la società da un giornalista. Quali sono i confini dell’etica e delle regole deontologiche che un giornalista ha il dovere di rispettare? Giuseppe “Pippo” Fava, che dell’etica del giornalismo fu inimitabile maestro, indicava la sola strada che chi svolge questa importante professione dovrebbe seguire: “Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società…”. Nella vita di ogni persona, infatti, esistono dei confini etici, morali e professionali che non possono essere ignorati e superati. Vale per tutti, anche e soprattutto per i giornalisti, che hanno infinite possibilità di esprimere opinioni in grado di amplificare la loro voce e, al tempo stesso, di condizionare la società stessa con la loro narrazione.
In un intervento nel corso del programma radiofonico “La Zanzara”, Vittorio Feltri, direttore editoriale de “Il Giornale” e consigliere in regione Lombardia per Fratelli d’Italia, ha superato tutti quei confini. Il suo intervento è molto di più di un insulto all’etica e alle regole deontologiche: è un vero e proprio incitamento all’odio etnico e razziale. Partendo dalla morte di Ramy Elgami, il ragazzo di 19 anni deceduto in un incidente stradale durante un inseguimento dei carabinieri nel quartiere milanese di Corvetto, Feltri ha esibito tutto il suo odioso repertorio: “Non frequento le periferie, non mi piacciono. Sono caotiche, brutte e soprattutto piene di extracomunitari che non sopporto. Basta guardarli, vedi quello che combinano qui a Milano. Come fai ad amarli? Gli sparerei in bocca. Non mi vergogno affatto di considerare i musulmani come una razza inferiore”.
Parole oscene, le ennesime pronunciate da un giornalista e uomo delle istituzioni che, nel corso di una carriera imbarazzante, si è reso più volte protagonista di vergognose prese di posizione di stampo razzista, xenofobo e omofobo. Lui, che in un’intervista televisiva definiva Adolf Hitler come “un uomo severo ma giusto” e che, in un’altra intervista dell’aprile 2020, dichiarava: “Non credo ai complessi d’inferiorità, io credo che i meridionali in molti casi siano davvero inferiori”. Ancora, il 2 marzo 2023, dopo il naufragio di Cutro, scriveva: “Agli extracomunitari ricordo un vecchio detto italiano: partire è un po’ morire. State a casa vostra”, mentre nel settembre 2024, ad una conferenza organizzata da “Il Giornale”, esibiva il suo fastidio per le piste ciclabili di Milano affermando: “I ciclisti mi piacciono solo quando vengono investiti”. Il suo curriculum è inevitabilmente ricco di procedimenti giudiziari a suo carico. Ma se Vittorio Feltri da sempre ignora questi confini, i riflettori si accendono, inevitabilmente, su chi assiste indifferente senza battere ciglio. Dopo la sua ultima uscita il suo partito si dissocia blandamente ma senza prendere alcun provvedimento ufficiale, provando anzi a minimizzare.
Sul banco degli imputati, però, siede, per forza di cose, anche il grande assente: l’Ordine dei Giornalisti. Istituito il 3 febbraio 1963, l’Ordine è un ente pubblico italiano che rappresenta la categoria professionale e gestisce l’Albo dei giornalisti, nato nel 1925 quando il contratto di lavoro nazionale dei giornalisti volle l’istituzione di un “Albo generale dei giornalisti professionisti”. Oggi, per poter esercitare la professione, l’iscrizione all’Albo è obbligatoria. L’Ordine ha una funzione di vigilanza e di tutela sull’operato degli iscritti e, fra i suoi compiti e i suoi doveri, rientra anche il controllo sul rispetto del codice etico e deontologico degli stessi iscritti. Ed è su questo punto che, un giorno alla volta, l’Ordine perde la sua credibilità: l’azione disciplinare per atti che violano l’etica professionale e il codice deontologico – che di fatto compromettono anche la reputazione della categoria e dell’Ordine stesso – non è mai scattata per Vittorio Feltri. Perché? È una domanda che tutti hanno il diritto di porsi, in modo particolare in questi tempi dove gli attacchi alla libertà di stampa, al giornalismo d’inchiesta e al giornalismo di guerra, sono il pane quotidiano della destra estrema che governa il Paese.
L’Ordine dei giornalisti, nel corso del tempo, ha istituito una serie di Carte deontologiche e protocolli che il giornalista è obbligato a rispettare nell’esercizio della sua professione. Protocolli che tutelano non solo i diritti di terzi, ma rappresentano anche norme giuridiche la cui inadempienza configura l’illecito disciplinare. Il “Testo unico dei doveri del giornalista”, deciso dal Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti ed entrato in vigore il 3 febbraio 2016, raggruppa tutte quelle Carte e quei protocolli in un unico testo. Solo quattro carte sono rimaste volutamente separate: il Codice deontologico sulla privacy, la Carta di Treviso, che regola il rapporto fra l’informazione e i minori, la Carta dei doveri dell’informazione economica, che si applica ai giornalisti che si occupano di informazione economica, istituito in seguito alla direttiva europea dedicata ai reati finanziari, e la Carta di Firenze, che riguarda il fenomeno della precarietà nel mondo del giornalismo.
C’è una Carta, in particolare, che il direttore Feltri ha più volte ignorato e violato nel corso degli anni con i titoli e gli editoriali sui giornali da lui diretti: è la Carta di Roma, che riguarda i migranti, i richiedenti asilo, i rifugiati e le vittime delle tratte. Una carta nata sulla base delle preoccupazioni dell’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR). L’Associazione Carta di Roma presentò, già nel settembre del 2017, un esposto disciplinare per l’articolo pubblicato da “Libero” il 6 settembre 2017 che aveva per tema i migranti e in cui si affermava che essi “dopo la miseria portano le malattie”. L’articolo era firmato da Pietro Senaldi, e il direttore editoriale, a quell’epoca, era proprio Vittorio Feltri.
Ogni violazione in spregio alle Carte e al Codice deontologico configura quindi un illecito disciplinare, che comporta un procedimento che può essere attivato dall’Ordine dei Giornalisti Regionale, su richiesta del Procuratore generale, ma anche da un esposto che può essere fatto da qualsiasi cittadino. I provvedimenti vanno dal rilievo alla censura e possono arrivare fino alla sospensione o alla radiazione dall’Albo. Come si spiega, allora, il silenzio dell’Ordine e dei suoi Consigli di disciplina, considerando che la figura di Vittorio Feltri assume un rilievo maggiore in quanto direttore e non semplice giornalista, professionista o pubblicista che sia? Un Ordine che impone ai suoi iscritti l’obbligo di “corsi di aggiornamento” per conseguire i crediti minimi necessari per non perdere l’iscrizione all’Albo, e che presta un’attenzione particolare all’esercizio abusivo della professione giornalistica, ma poi non ha il coraggio di radiare dall’Albo chi umilia la professione di giornalista.
Eppure, il 25 marzo 2010, il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia sospese Feltri dall’albo professionale per sei mesi, mentre dieci anni più tardi, il 25 giugno 2020, lo stesso Feltri rassegnò le dimissioni dall’Ordine dei giornalisti in polemica con i provvedimenti disciplinari presi nei suoi confronti a causa dei titoli offensivi di Libero. Dietro sua richiesta era stato successivamente riammesso dall’Ordine della Lombardia. E ora? Come intende muoversi l’Ordine? Lo stesso che, nel 2015, per un debito di 1384 euro, prendeva in considerazione l’ipotesi di radiare dall’Albo una penna come Riccardo Orioles. Lui, che fu tra i fondatori de “I Siciliani” di Giuseppe Fava all’epoca in cui parlare di massoneria, mafia e politica, significava rischiare la vita. Lui, punto di riferimento ancora più prezioso dopo l’assassinio di Fava, a 65 anni sopravviveva con la pensione minima. Solo l’intervento di Don Luigi Ciotti e di “Libera” fermarono quella radiazione, saldando con un bonifico gli arretrati di Orioles.
L’informazione in Italia è nelle mani dei grandi gruppi editoriali, controllati e asserviti a poteri politici e finanziari, ma c’è anche chi continua a credere che quel “concetto etico del giornalismo” caro a Pippo Fava possa ancora trovare una ragione di esistere sulla strada di questo Paese. Solo in Italia esiste un Ordine dei Giornalisti, ma se quell’Ordine vuole avere un senso deve trovare il coraggio di liberarsi delle scorie che da troppo tempo umiliano una professione importante per ogni democrazia. Se questo coraggio manca, il rischio è di tornare a quell’Albo “generale dei giornalisti professionisti” che, nell’Italia del Ventennio, permetteva al fascismo di avere il controllo totale e assoluto dell’informazione e di essere solo l’eco e la cassa di risonanza del regime. Le radici dell’odio sono già tante, e non c’è bisogno che si aggiungano anche quelle con la tessera di giornalista. Vale per Vittorio Feltri e per chi come lui, dalla redazione di un giornale o da un salotto televisivo, semina cattiveria e razzismo.
Maurizio Anelli -ilmegafono.org
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