Corvetto, fino a dieci giorni fa, era solo un quartiere di Milano, appartenente al Municipio 4 della metropoli lombarda e probabilmente sconosciuto a buona parte degli italiani. Dopo la tragica morte del 19enne di origine egiziana Ramy Elgami, il Corvetto è diventato uno di quei luoghi che, ogni tanto, finiscono nelle cronache nazionali, con le loro storie umane, spesso tragiche e piene di sfumature, che vengono consumate in vario modo, a seconda dei fini o delle utilità. La morte di un ragazzo, caduto dalla moto guidata da un amico, durante un inseguimento dei carabinieri, ha acceso il dibattito, stimolato le solite bocche lerce dell’opinione pubblica italiana, nutrito riflessioni sterili da parte di osservatori incontinenti. La reazione violenta di alcuni giovani di origine straniera, con la richiesta di giustizia e verità su come sono andate effettivamente le cose (c’è un’indagine in corso che proverà a capire quel che è accaduto), ha immediatamente creato il caso politico.
Naturalmente, in prima fila c’è la destra, soprattutto Lega e Fratelli d’Italia, che non si è lasciata sfuggire l’occasione per parlare di fallimento dalla visione progressista o del modello di “integrazione”. Il ministro Piantedosi, invece, seppur con maggior accortezza del solito, ha sottolineato la percentuale di devianza criminale che si registra tra le fasce di cui fanno parte gli immigrati. Dal canto suo, il sindaco di Milano, Beppe Sala, ha ribadito il ruolo di Milano come città d’accoglienza e ha affermato di aver ottenuto la garanzia che “da gennaio ci saranno 600 rappresentanti delle forze dell’ordine in più, tra polizia, carabinieri e guardia di finanza”. Insomma, da qualsiasi prospettiva la si voglia guardare, tutto viene in qualche modo ridotto sempre a una questione legalitaria. Sicurezza, controllo, repressione: sono questi i concetti che emergono, con colori più o meno sbiaditi, nelle parole che hanno circondato questa vicenda.
Non c’è alcun ragionamento più profondo, non c’è alcun pensiero dedicato allo scollamento che questa politica, trasversalmente, ha creato con quella parte di popolazione, italiana e non, che vive in realtà marginali rispetto al centro nel quale risiede la borghesia economica che in gran parte, oggi, nutre e disegna la classe dirigente di questo Paese. E si parla volutamente di realtà marginali, invece che di periferie, perché a dirla tutta il Corvetto, dal punto di vista geografico, non è nemmeno da considerarsi una periferia, visto che si trova a poca distanza dal centro, dai lustrini, dalle vie dello shopping e dei ristoranti di grido. Eppure è considerato come tale, così come sono considerate periferie quelle zone della città ancora più vicine al centro, sul piano della distanza, ma estremamente lontane circa la composizione dei suoi abitanti, la loro provenienza, il loro status economico-sociale. Il fatto è questo: è ritenuta periferia tutto ciò che non risponde ai criteri del centro. Ed è periferia tutto ciò che, chi governa il Paese o le città, abbandona, lascia ai margini della propria azione politica, ad eccezione di qualche progetto affidato a dirigenti zelanti, associazioni o cooperative.
La periferia, dunque, non è un qualcosa che nasce da una posizione geografica, ma è piuttosto un concetto sociale, di classe, di coerenza o incoerenza rispetto al modello che il potere e il pensiero dominante riconoscono. Così Corvetto diventa periferia, uno spazio urbano di cui ci si accorge solo quando brucia, solo quando qualcuno osa reagire a un fatto che percepisce, a torto o ragione lo stabilirà l’inchiesta della magistratura, come l’ennesima ingiustizia, l’ennesimo sopruso, che poi inevitabilmente assume le connotazioni etniche con cui la politica, soprattutto una certa politica, condisce quotidianamente ogni fatto.
La destra, soprattutto, usa le periferie per ottenere consenso facile, pompando odio, mettendo contro italiani e stranieri, soprattutto quelli che vivono le situazioni sociali o economiche più complesse, talvolta anche in competizione tra loro. Lo fa per distrarli, per impedire loro di accorgersi di esser parte passiva dello stesso sfruttamento, per scongiurare il rischio che possano puntare il dito laddove andrebbe puntato, vale a dire verso l’alto, verso il potere che opera per mantenere in una condizione di svantaggio le fasce più marginali.
Il centrosinistra, dal canto suo, le periferie le ha in parte dimenticate, o comunque non è stato capace di comprenderne appieno i bisogni, non ha avuto il coraggio di proporre un modello fortemente alternativo, anche nelle cifre comunicative, a quello della destra. Basti ricordare le parole e le rivendicazioni inaccettabili dell’ex assessora comunale, Carmela Rozza (Giunta Pisapia), nei giorni del vergognoso e indiscriminato blitz del maggio 2017 alla stazione Centrale, con il “rastrellamento” dei migranti che si trovavano, anche senza compiere alcun reato, in quell’area. La verità è che, nelle periferie o nelle realtà come Corvetto, ci sono associazioni, presidi di legalità reale, cooperative, centri culturali che lavorano bene da anni, ma non c’è una presenza concreta, corale e organizzata di chi governa le città o le Regioni.
Rispetto al caso di Milano, la sensazione è che questo centrosinistra abbia investito molto, forse anche troppo, sul centro, sulla modernizzazione delle strutture, sull’offerta turistica e sull’attrazione dei grandi gruppi economici, ma troppo poco sull’avvicinamento tra centro e periferie, sul coinvolgimento nelle scelte per il futuro, sulla riqualificazione, sulla creazione o sul potenziamento dei servizi nei territori meno vicini (anche concettualmente) al modello dominante. Non è un caso infatti che, a livello elettorale, ultimamente il centrosinistra milanese abbia raccolto molto nei quartieri centrali e poco in quelli periferici. Insomma, in conclusione, nella vicenda del Corvetto, di cui il Paese si dimenticherà in fretta, come si è già dimenticato di Caivano, risaltano i soliti ingredienti di una politica miope, incancrenitasi nella retorica nociva della sicurezza e della equazione tra migrante e criminale. Una politica manifestamente incapace di guardare oltre.
Perché a Milano non abbiamo banlieue, la rabbia che abbiamo visto non ha nulla a che vedere con la storia dolorosa e complessa dei sobborghi delle città francesi. Basterebbe solo impegnarsi davvero per luoghi che qualcuno ha reso periferici e che invece potrebbero e dovrebbero parlarsi con il resto di una città che ancora, nonostante i tempi bui, mantiene un’anima solidale e una cultura aperta. Bisognerebbe concentrarsi sulle periferie, anche se questo significherebbe rinunciare al ritorno di immagine e di consenso, perché i risultati probabilmente sarebbero visibili e misurabili molti anni dopo, quando toccherà a qualcun altro goderne. Bisognerebbe anche capirla quella rabbia che ogni tanto viene fuori, condannarne magari le forme ma ascoltarne la sostanza. “Ascoltare”, un verbo molto importante, che ad esempio è stato coniugato egregiamente dagli amici di Ramy, quelli che hanno manifestato con grande civiltà e compostezza il 30 novembre. E che, insieme a un dibattito razionale e a un serio accertamento della verità, dovremmo dedicare soprattutto ai familiari del ragazzo e al dolore atroce che stanno vivendo.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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