L’obbligo del velo in Iran risale alla Rivoluzione Khomeinista del 1979, quando l’hijab diventò il simbolo della resistenza contro il regime monarchico dello scià Mohammed Reza Pahlavi. Esso rappresentava la contrapposizione al modello occidentale di quella monarchia. Non soltanto, quindi, un dettame religioso, ma anche il rifiuto del modello che, negli anni ’30, aveva proibito per legge alle donne iraniane di indossare quel velo. Negli anni successivi, quel simbolo religioso e di opposizione è diventato il potente e spietato strumento di controllo delle autorità sulla vita delle donne, esercitato dal potere fin da quando sono bambine. Dal 1981, la legge impone alle donne di mostrarsi in pubblico con uno chador, il mantello che copre una donna dalla testa ai piedi, oppure uno hijab, un pezzo di tessuto di forma rettangolare, annodato intorno alla testa e al collo per coprire i capelli. Insieme allo hijab l’obbligo prevede anche una maglia a maniche lunghe per coprire le braccia.

Da sempre, e in tutto il mondo, la vita delle donne è una lotta quotidiana di resistenza, rabbia e ribellione. Nell’Iran degli Āyatollāh, dove la legge sull’hijab schiaccia e azzera quella vita, lo è di più. Il 16 settembre 2022, a Teheran, veniva giustiziata Mahsa Amini. Originaria del Kurdistan, era stata arrestata dalla polizia morale per non avere indossato correttamente il velo islamico, o hijab, come prescritto dalle leggi iraniane. Mahsa aveva solo 22 anni, aveva scoperto i suoi capelli ed ha pagato con la vita quel gesto di sfida che ha provocato un’onda di ribellione e solidarietà. Le grandi manifestazioni, per mesi, hanno invaso le città e ogni angolo del Paese, diventando un simbolo per la difesa dei diritti delle donne e nella lotta al regime religioso, e il regime ha reagito nell’unico modo che conoscono tutti poteri autoritari: con la forza e con la repressione. La violenza nelle piazze non ha risparmiato le donne e chi sosteneva la loro lotta, e nelle aule dei tribunali si decidevano le condanne a morte. Il gesto di Mahsa aveva toccato le coscienze di tutti, anche fuori dai confini iraniani, ma Il mondo corre e in questi due anni in tanti hanno già dimenticato quella storia.

Nel frattempo, nell’estate di quest’anno, l’Iran ha approvato una nuova “legge sulla protezione della famiglia tramite la promozione della cultura della castità e dell’hijab”, e istituito la “Giornata nazionale dell’hijab e della castità” da celebrarsi ogni 12 luglio. Una legge arrivata nel momento in cui si intensificavano e inasprivano i controlli e la repressione fisica nei confronti delle donne e delle ragazze considerate non in linea con le norme esistenti. La nuova legge, presentata una prima volta già nel maggio 2023, ha inasprito le sanzioni sulle violazioni già previste dal codice penale islamico e si avvale ora di un ulteriore strumento: l’utilizzo del riconoscimento facciale per identificare le donne che non rispettano gli obblighi imposti. L’attività di controllo monitora le strade principali delle grandi città, le università e ogni luogo di incontro. Un ulteriore giro di vite sui loro diritti, che mostra anche tutta la paura del regime degli Āyatollāh di fronte alle crescenti manifestazioni popolari e alla possibilità che una nuova rivoluzione possa nascere dal coraggio e dalla dignità delle donne che loro pretendono di oscurare.

Nonostante questo clima di paura, infatti, aumenta il numero di chi rifiuta queste regole, trattandole come se non esistessero, così come aumentano i comportamenti di resistenza passiva. Oggi, due anni dopo l’assassinio di Mahsa Amini, un’altra ragazza sfida il potere degli Āyatollāh e delle loro leggi: si chiama Ahoo Daryaei, è una studentessa dell’Università Islamica Azad di Teheran e, il 2 novembre scorso, ha compiuto un enorme gesto di ribellione dando voce al proprio “corpo”, trasformandolo in un potente atto d’accusa contro quell’autorità che, da oltre quarant’anni, assegna al corpo delle donne il ruolo di una colpa da nascondere con vergogna. Sulle strade dove i “guardiani della rivoluzione” controllano che una donna possa mostrare solo una parte del suo viso, lei ha tolto non solo il velo, ma ha deciso di camminare su quelle strade solo con slip e reggiseno sfidando il regime e la “Polizia Morale”. Ha denunciato in un colpo solo tutto il potere e tutto l’apartheid di genere che soffoca e umilia la dignità, la bellezza e il diritto di essere donna, consapevole che quel gesto potrebbe significare la fine stessa della sua vita.

Quanto è difficile, per l’universo occidentale, comprendere o solo immaginare quanto coraggio e quanta lucida determinazione siano necessari per compiere un gesto di questa portata, in un Paese dove anche solo mostrare una ciocca di capelli è sufficiente per essere condannate a morte? Guardiamole quelle immagini, osserviamo la fierezza di una ragazza che sfida tutte le forze vigliacche del potere. Cammina in silenzio nei viali dell’università e si siede in un angolo, nessuno la avvicina e nessuno le rivolge la parola, nessuno interviene quando la portano via. Guardiamole, e capiremo che quel coraggio e quella determinazione Ahoo li ha trovati dentro di sé, passando su tutte le umiliazioni, la rabbia, le offese, le solitudini che appartengono a chi non ha mai avuto nessun diritto.

Dal momento del suo arresto di lei non si sa più nulla. L’agenzia di Stampa LaPresse, nel pomeriggio del 5 novembre, riporta le dichiarazioni della portavoce del governo iraniano, Fatemeh Mohajerania, che ha ufficialmente dichiarato come la studentessa dopo l’arresto sia stata trasferita in un centro di cura. Parole che arrivano dopo che le autorità stesse avevano descritto Ahoo Daryaei come una persona con gravi problemi mentali. In seguito anche un funzionario dell’università ha confermato la tesi delle autorità. È solo la voce di Shirin ʿEbādi, avvocata e pacifista iraniana, premio Nobel per la pace nel 2003 per la sua attività a favore della democrazia e dei diritti umani, in particolare quelli delle donne, dei bambini e dei rifugiati, a restituire ad Ahoo la dignità rubata, dichiarando che “etichettare i manifestanti come malati di mente è un metodo di lunga data del regime per sopprimere il dissenso. Se la studentessa che protestava all’Università Azad era ‘malata’, perché è stata arrestata? L’apparato di sicurezza è responsabile delle cure mediche dei cittadini?”.

È un’antica e sporca abitudine, comune a tutti i regimi, attribuire disturbi mentali ai dissidenti e se questi dissidenti sono donne la storia è ancora più antica: le persecuzioni che per secoli le hanno riguardate sono il simbolo della personificazione di un “nemico interno”. La “civile Europa” e l’America per interi decenni hanno aperto le porte dei loro manicomi alle donne che si ribellavano e sfidavano apertamente il potere. Renderle invisibili, per metterle a tacere e per spegnere ogni emulazione. Guardando le immagini di Ahoo che cammina, spogliata da veli e abiti, riusciremo allora anche a capire quanta violenza di genere accompagna da sempre la vita delle donne, ovunque. Certo, è giusto gridare contro l’integralismo e il fanatismo religioso, ma autoassolversi sfruttando questa tesi è un limite che non possiamo permetterci e che dobbiamo superare: dietro quella legge sulla “protezione della famiglia tramite la promozione della cultura della castità e dell’hijab”, che gli Āyatollāh affidano alla loro “Polizia Morale”, esiste quell’apartheid di genere che in Iran è regolato dalle leggi, mentre in altre parti del mondo è comunque insito nella mente di tanti, come una malattia difficile da guarire e che troppe volte fingiamo di non vedere.

Le storie di Mahsa Amini e di Ahoo Daryaei hanno comunque squarciato la notte degli Āyatollāh. Le donne iraniane dovranno e sapranno trovare, tutte insieme, la forza per continuare quella lotta di disobbedienza civile. È una sfida immensa, loro proveranno a vincerla con la forza che abita nel loro corpo e nel loro cuore, contro tutte le leggi scritte per umiliare e mettere a tacere la loro voce, per oscurare la loro storia e i loro diritti. Sapranno farlo anche contro quelle leggi non-scritte che gli uomini, gli integralismi religiosi e i regimi di ogni colore, portano con sé da secoli. Noi abbiamo il dovere di non lasciarle sole e di dare voce e risonanza alla loro lotta. Non bisogna dare nessuno spazio alla propaganda del regime iraniano, ma contrastare con forza chi sostiene e appoggia con un sorriso la tesi che Ahoo sia solo una squilibrata. Nella storia dell’umanità non potrà mai esserci alcuna liberazione senza una ribellione, per questo le storie di Ahoo Daryaei e Mahsa Amini superano i confini stessi dell’Iran. Non dimentichiamoli questi nomi.

Maurizio Anelli -ilmegafono.org