Mentre chi ci governa si spende quotidianamente per restaurare fallimentari e ipocriti concetti di patria, mentre si impegna a far la guerra alla solidarietà e al dissenso, mentre promuove grandi opere farlocche o si affanna a organizzare feste di partito e fiere di paese spacciate per grandi eventi, il Paese reale annaspa. Lì ai margini, fuori dalla bolla sterile nella quale si è rinchiusa la classe di governo italiana, viene relegata la realtà. Una realtà difficile, dura, spietata, che quotidianamente sputa fuori destini beffardi, vicende tragiche che, molto spesso, non sono frutto di un caso, ma del sistema che governa la società attuale e rispetto al quale la politica resta inerme e indifferente. Di questa realtà durissima faceva parte Alì Jamat, 31 anni, originario del Pakistan ma residente a Padova. Sposato, una figlia di sei anni da crescere e uno in arrivo, Alì faceva il rider, consegnava cibo a domicilio. La sua vicenda, purtroppo, la decliniamo all’imperfetto, la raccontiamo al passato, perché Alì Jamat è morto, dopo giorni di agonia, in ospedale.
Ci era finito la notte tra il 6 e il 7 settembre scorso, mentre concludeva l’ultima consegna. Ci era finito dopo essere stato investito da un’automobile, a Limena, vicino Padova. Un brutto trauma cranico, la corsa in ospedale, il respiratore artificiale a tenerlo aggrappato alla vita, vanamente, fino alla sua morte. Una morte avvenuta, per una dolorosa coincidenza, proprio mentre la moglie dava alla luce il suo secondo figlio. Alì è l’ennesimo morto sul lavoro, non solo un nome, ma un’altra vita, un’altra storia fatta di legami, sogni, fatica, speranza che diventa suo malgrado vittima di un sistema basato sullo sfruttamento, sulla negazione dei diritti e della dignità, sull’indifferenza di chi dovrebbe assicurare tutele e sicurezza.
I rider sono un altro pezzo del mondo del lavoro che, ormai da anni, vive in una condizione di schiavitù, di ricatto. Pagati poco, privi di tutela e di garanzie, costretti a correre per guadagnare qualcosa in più o per non perdere la consegna. Correre davanti a qualsiasi ostacolo o condizione meteo, su strade che diventano dei tritacarne, dei campi minati. Le lotte sindacali non sono bastate, davanti a un mondo imprenditoriale e a una classe politica che sulla sicurezza non investono nulla. Alì Jamat, la sua fine tragica, il dolore di una famiglia spezzata saranno dimenticati tra qualche giorno o settimana. Magari qualcuno racconterà che, alla fine, è stata colpa sua, perché doveva stare più attento. Qualche testimone che racconterà di qualche sua imprudenza, chissà, salterà fuori, come è saltato fuori nel caso di Satnam Singh, il bracciante che aveva perso il braccio in una azienda di Latina ed è stato lasciato agonizzare, senza che venissero allertati i soccorsi. Oggi, un testimone sostiene che la colpa è stata sua, sia per l’incidente sia per il mancato trasporto in ospedale.
Insomma, Alì sarà un altro pezzo di un oblio che questo Paese dedica ai morti sul lavoro, un oblio necessario per difendere la propria coscienza sporca, per nascondere le responsabilità diffuse e non mettere in discussione un sistema che ci riguarda tutti. Alì Jamat è un altro nome dentro quel drammatico elenco che, nel primo semestre 2024, secondo Inail, ha toccato quota 469 morti, questo il dato delle denunce di incidenti mortali (19 in più dello stesso periodo del 2023). Una strage continua. La prova che il lavoro in Italia non è un diritto fondante, come recita la Costituzione, ma è una concessione, sempre più spesso a condizioni disumane o ad alto rischio incidente. Soprattutto è sempre più precario, sia economicamente che sul piano delle garanzie, e costringe lavoratori e lavoratrici, a causa della loro condizione di bisogno e a una solitudine sociale maggiore, ad accettare e a sperare che oggi o domani non tocchi a loro. E non è solo un problema di sicurezza, ma anche di equità, di diritti, di paghe reali e puntuali, di contratti con regole reciproche, di concezione del lavoro e di rispetto dei lavoratori.
Di rispetto, non solo da parte dei datori di lavoro, ma anche dei cittadini. E qui torniamo alla solidarietà, che non si esprime solo con la partecipazione alle azioni sindacali relative a categorie di cui non facciamo parte e delle quali dovremmo condividere la battaglia, ma anche con le scelte e i comportamenti. Primo fra tutti, ad esempio, evitare di mettere a rischio i rider con le nostre chiamate per servizi a domicilio, magari a tarda ora o con condizioni climatiche non buone. Se continuiamo a fomentare questo modello perverso di lavoro, continueremo a piangere le vittime. Se vogliamo tutto e subito senza rinunciare a qualcosa (come a un po’ di tempo di attesa), la nostra volontà metterà a rischio delle vite. Lavorare correndo in bicicletta o in moto per fare in modo che chi è comodo a casa non esca a comprare del cibo o non aspetti troppo per mangiare, è una follia, ma è ritenuto assolutamente normale e “in linea con i tempi” dalla maggior parte delle persone, incluso molti di coloro i quali stanno leggendo e magari, tra un’ora, ordineranno un panino o una cena su una app.
Qualcuno storcerà il naso, dirà che non si può riportare il mondo indietro, rimandando la questione a chi fa le leggi o a chi opera sul mercato. Un ottimo alibi, per tirarci fuori, ancora una volta, dalle nostre responsabilità. Che costano, perché chiedono il sacrificio di una comoda abitudine. Eppure è solo così che, accanto alle rivendicazioni nei confronti dell’esecutivo e delle imprese del settore, possiamo interiorizzare un problema e agire di conseguenza per risolverlo. Altrimenti, finita l’indignazione, annacquato il dolore dentro le corse del quotidiano, ci ritroveremo davanti a un altro corpo, a un’altra storia, a un’altra vita ingoiata da un sistema vorace e iniquo. Definiremo ancora una volta “destino” quello che invece è scientificamente prevedibile, numericamente misurabile e, purtroppo, drammaticamente tangibile. E piangeremo per un altro Alì Jamat che, pochi giorni dopo, dimenticheremo.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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