Non chiamatelo gossip, perché non lo è. La vicenda che ha coinvolto l’ormai ex ministro Gennaro Sangiuliano e l’imprenditrice Maria Rosaria Boccia, infatti, ha risvolti molto più gravi e significativi di una presunta questione privata. Se l’informazione di parte e il governo sperano che tutto si riduca a una sorta di copione sentimentale, da strappare via in fretta attraverso le dimissioni di Sangiuliano o le minacce di querele e denunce varie, si sbagliano di grosso. Perché la questione ha messo in luce le tante ombre che avvolgono l’esecutivo italiano e ha chiamato in causa i vizi di una gestione del potere famelica e infantile. Una gestione nella quale emergono l’arroganza, i presunti ricatti sui quali si fondano i rapporti dentro il governo, le trame oscure (sulle quali la magistratura ha iniziato a indagare), la facilità con la quale la bolla di sicurezza che compete a uno Stato serio può essere violata, la volubilità di ministri che, per una infatuazione, sono capaci di spalancare le porte delle stanze del potere, con tutto ciò che esse contengono.

Il caso Sangiuliano ha strappato il velo, già di per sé piuttosto consunto, di una classe dirigente che fonda il suo agire sul familismo, sul dilettantismo, sulla mortificazione di qualsiasi merito, qualunque procedura. Non è dunque allontanando un pessimo protagonista di questo esecutivo che si può pensare di spostare la lente di ingrandimento sulle questioni che riguardano la gestione della cosa pubblica, le nomine, i possibili conflitti di interesse, le epurazioni di natura politico-ideologica, l’inserimento di persone con curricula inadeguati nei cda di importanti istituzioni culturali. Lo scandalo dell’ex ministro della Cultura ha consentito di scattare una fotografia di quello che è il governo Meloni nel suo complesso, dell’inadeguatezza di buona parte dei suoi componenti.

Metterne da parte uno e contemporaneamente agitare la bandiera del complotto politico e della regia occulta è una strategia piuttosto sterile. Forse può andar bene per gli elettori di questa destra circense, ai quali, nutriti da un servizio pubblico capace di toccare livelli sempre più infimi, bastano le verità dei propri rappresentanti, anche quelle che sono fragili o perfino farsesche. D’altra parte, la leader principale, la premier Meloni, è quella che nel 2011, da deputata, votò insieme al centrodestra compatto per salvare Berlusconi e dire no all’autorizzazione alle perquisizioni per il caso Ruby. In poche parole, Giorgia Meloni, con il suo voto, dichiarò di credere che la giovanissima Karima El Mahroug, nota con il nome di Ruby Rubacuori, fosse la nipote del presidente egiziano Mubarak. Una versione caldeggiata dal Cavaliere, accusato di avere intrattenuto incontri sessuali con la ragazza e di aver fatto pressioni su un funzionario della questura di Milano affinché la “affidasse” a Nicole Minetti, all’epoca consigliera regionale lombarda. Insomma, per Giorgia Meloni la verità ha un valore relativo, se paragonata all’ambizione di potere.

Il problema è che prima o poi i nodi vengono al pettine, soprattutto se ti circondi di cialtroni e saltimbanchi o di fidati parenti che, al di là del legame familiare, non hanno alcuna competenza e insufficiente dignità politica. Arianna Meloni, ad esempio, sorella della premier, è addirittura diventata una figura cruciale, assumendo la regia occulta e delineandosi come un’eminenza grigia che arrangia la corte della regina e piazza un po’ ovunque i fedelissimi. Arianna Meloni però non è Gianni Letta, per citarne uno di lungo corso, non ha la sua lunga esperienza né la sua rete di rapporti, soprattutto non si serve di persone di alto profilo. La prima destra berlusconiana, infatti, era già decadente, è vero, ma poteva ancora contare anche su profili provenienti dalla prima Repubblica, discutibili o meno, ma di certo politicamente più navigati o di maggior spessore. E di certo più furbi. I vari Lollobrigida, Sangiuliano, Santanchè e Salvini, non avrebbero avuto la visibilità che hanno oggi con questo governo e questa premier. E a loro se ne potrebbero aggiungere altri, ugualmente scadenti, ma semplicemente più attenti a non esporsi troppo, visto che appena lo fanno finiscono per collezionare gaffe, errori, polemiche.

Un esempio? Valditara, ministro dell’Istruzione, delle cui mirabolanti idee si parla poco, perché poche volte si espone. Eppure, seguendone un po’ l’azione, di argomenti ce ne sarebbero parecchi. Prendiamo le sue recenti parole alla vigilia del nuovo anno scolastico e scegliamo un passaggio, ossia il riferimento alla patria come base per l’educazione civica. La patria, elemento fondante di un concetto attraverso cui questo governo ha sponsorizzato spesso la visione dell’Italia, riproponendo in varie forme la triade Dio-Patria-Famiglia e sdoganando, di conseguenza, pericolosi ritorni indietro sul tema del ruolo della donna, sul diritto di aborto, sui diritti dei migranti, sul riconoscimento di famiglie di diversa composizione rispetto a quella celebrata dalle confessioni religiose. Un acido rigurgito di ipocrisia, se si pensa al Sangiuliano marito, ma infatuato di una donna alla quale, nella speranza di essere ricambiato o per ricambiarne le attenzioni, concede l’accesso alle stanze segrete del potere. O se si pensa al divorzio tra Lollobrigida e Arianna Meloni, o alle famiglie poco tradizionali di Giorgia Meloni e di Matteo Salvini. E potremmo continuare a lungo con l’elenco.

Se, riguardo alla famiglia, visto quanto appena esposto, l’incoerenza è grottesca, per quel che concerne la patria non sembra che le cose vadano meglio, considerata l’incapacità di una politica estera coerente e matura e i rischi ai quali alcuni ministri espongono la nazione. A questo punto, vediamo cosa saranno capaci di combinare in relazione a Dio… E nel frattempo vediamo se, tra uno scandalo e un altro, il governo si occuperà anche di affrontare le priorità del Paese (sanità, lavoro, istruzione, diritti), la questione del clima, con le conseguenze drammatiche e tangibili anche sul piano interno, e l’esplosiva situazione internazionale, con i teatri di guerra che ogni giorno portano in scena morte, orrori, violenza. Uno scenario bellico che rischia di diventare globale e rispetto a cui l’Italia ha perso drasticamente (per la verità da tempo) il suo antico ruolo di mediazione e diplomazia.

Chissà allora se la premier e i suoi sodali, tra nomine, cambi al vertice, epurazioni, piccole vendette, polemiche e assalti alla libertà di stampa e al dissenso, troveranno il tempo anche per abbandonare i falsi slogan e il solito vittimismo, provando finalmente a governare davvero e a concentrarsi sulla tutela dell’interesse collettivo, cioè sul benessere di tutti i cittadini, anche quelli che non li hanno votati. Perché in democrazia, questa dovrebbe essere la norma. Anche quando la democrazia, per Dna e storia, non ti appartiene.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org