Per come stanno andando le cose in questi anni, il 19 luglio sarebbe forse più giusto scegliere il silenzio e non partecipare alla valanga di commenti e di inutili chiacchiericci inzuppati in un amaro brodo di retorica. Non c’è più molto da scrivere o da dire, in effetti, se si continua a rimanere fermi alla commemorazione, allo spettacolo della tragedia, al dramma della morte violenta, con le sue immagini in loop, le macerie, il fumo, i corpi dilaniati, lo sconforto. Quello sconforto, che per molti di noi, soprattutto siciliani, divenne rabbia, spinta all’impegno civile, protesta, avanguardia antimafiosa, lo ricordiamo ancora benissimo. Anche a distanza di 32 anni. Perché quell’epoca terribile ce la siamo portata dentro, ingoiando le ingiustizie, i depistaggi, i tardivi ravvedimenti, le decine di inchieste che non ci hanno restituito mai la netta verità su mandanti e complici. Tutto quel dolore civile che almeno tre generazioni insieme hanno vissuto nel 1992, si è velocemente trasformato per molti nel concreto esercizio quotidiano di una memoria che rende eterni gli esempi.

Ecco perché, il 19 luglio, aprire un giornale, sfogliare il web e i social, può risultare stucchevole. Perché, il 19 luglio, sembra che qualcuno voglia raccontarci e ricordarci qualcosa che sappiamo bene e che abbiamo già trasformato in altro, andando oltre le lacrime e il dolore, oltre la commemorazione, non di rado anche fasulla, ipocrita, di facciata. Noi ricordiamo bene che Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, oggi idolatrati da ogni parte, quando erano in vita furono oggetto della campagna di odio e delegittimazione più violenta mai subita da dei magistrati nella storia della Repubblica. Continuare a dimenticare questo aspetto, a nasconderlo sotto l’amore generale e superficiale che oggi viene mostrato verso di loro, significa non raccontare la verità. Soprattutto ai più giovani, quelli che non erano nati e che oggi troppo spesso induciamo a confondere la commemorazione con la memoria, l’emozione con la verità.

D’altra parte, nella vicenda delle stragi del 1992, la verità è una chimera, è un quadro strappato, una scultura monca. Ci sono troppe domande inevase, troppe risposte soffocate. Si è già detto tutto, si è già parlato della trattativa Stato-mafia, dei servizi deviati, dell’isolamento di Falcone e Borsellino, del lavoro e delle intuizioni di Falcone e del tempo che Borsellino non ebbe per poterle dimostrare, dei traditori smascherati, dell’agenda rossa fagocitata dal buco nero dell’omertà di Stato. Si è già parlato ei processi infiniti, dei depistaggi, di uno Stato che, complessivamente, si è auto-assolto. Allora per quale ragione, nonostante tutto, il 19 luglio bisogna parlare e scrivere ancora? Perché è all’oggi che bisogna pensare, è al presente di questa data che bisogna guardare per parlare di mafia e di quella fase storica. Via D’Amelio è storia, è passato che si estende fino al nostro quotidiano, ma la mafia e i suoi complici istituzionali sono marcatamente presenti, vivono pienamente l’attualità.

Può forse sembrare un ossimoro, ma un Paese che commemora è in realtà un Paese senza memoria. Si limita a riconoscere la morte, ma dimentica le ragioni che l’hanno chiamata in causa e l’assoluta vitalità di quelle ragioni. Quando si smette di osservare le ragioni, di continuare a costruire ipotesi, quando ci si arrende all’idea dell’ordinario, del compitino facile, che può coinvolgere anche la lotta, quando si crede che in fondo quelle risposte non arriveranno più, vuol dire che si sta smettendo di esercitare memoria fino in fondo. E a proposito di questa vitalità della memoria, nei giorni che hanno preceduto il 19 luglio è giunta una notizia molto importante alla quale è stato dato poco risalto, ma che invece andrebbe fissata bene in alto nella cronaca e nei dibattiti nazionali, perché è strettamente connessa alla storia della lotta alla mafia e soprattutto al lavoro di Giovanni Falcone.

Si tratta della lettera anonima ricevuta dai familiari di Piersanti Mattarella, presidente della Regione Sicilia ucciso il 6 gennaio 1980 a Palermo. Un politico illuminato che, in un’epoca durissima, mise l’etica e la lotta alla mafia al centro della sua azione politica. Sul suo omicidio, per il quale sono stati condannati i più importanti capi della cupola mafiosa, indagò anche Giovanni Falcone, che cercò di scovare anche gli esecutori e i mandanti esterni. Nella lettera recapitata alla famiglia Mattarella, un foglio A4 scritto al computer, si afferma che a uccidere il presidente della Regione fu un giovane dagli occhi di ghiaccio, militante di estrema destra. Nella lettera ci sono altre informazioni, come il nome e cognome e il soprannome. Al momento però c’è riserbo, per consentire alla Procura di indagare senza intralci. La pista dell’eversione fascista era stata approfondita da Falcone, che aveva indicato in Valerio Giusva Fioravanti e Gilberto Cavallini, fascisti ed esponenti di spicco dei NAR (Nuclei Armati Rivoluzionari), gli assassini di Mattarella.

Fioravanti sarebbe stato riconosciuto anche dalla moglie di Mattarella, Irma Chiazzese, in macchina con il marito quando venne ucciso dal killer. Anche il fratello di Fioravanti, Cristiano, collaboratore di giustizia, aveva confermato questa pista. Giusva, uno dei terroristi più osannati dall’estremismo di destra, e Cavallini furono imputati e poi assolti dopo che Falcone era già stato assassinato. Entrambi vennero invece condannati per la strage di Bologna. La pista nera, tuttavia, torna d’attualità, dopo essere stata a lungo tempo dimenticata da uno Stato che sembra non volere fare i conti con la parte marcia del suo passato. Un passato nel quale la commistione tra mafia, servizi deviati ed eversione nera è emersa più volte in occasione di gravi eventi della storia repubblicana.

Lo spiega bene proprio Giovanni Falcone, nel corso della sua audizione, avvenuta il 3 novembre 1988, presso la Commissione parlamentare antimafia: “Il problema di maggiore complessità per quanto riguarda l’omicidio Mattarella deriva dalla esistenza di indizi a carico anche di esponenti della destra eversiva quali Valerio Fioravanti. Posso dirlo con estrema chiarezza perché risulta anche da dichiarazioni dibattimentali da parte di Cristiano Fioravanti. che ha accusato il fratello di avergli detto di essere stato lui stesso, insieme con Gilberto Cavallini, l’esecutore materiale dell’omicidio di Piersanti Mattarella. È quindi un’indagine estremamente complessa perché si tratta di capire se e in quale misura ‘la pista nera’ sia alternativa rispetto a quella mafiosa, oppure si compenetri con quella mafiosa. Il che potrebbe significare altre saldature e soprattutto la necessità di rifare la storia di certe vicende del nostro Paese, anche da tempi assai lontani”.

“Ci sono stati grossi problemi di prudenza – continua Falcone – in relazione a procedimenti in corso presso altre giurisdizioni, quale ad esempio il processo per la strage di Bologna in cui la materia per parecchi punti è coincidente. Ci sono collegamenti e coincidenze anche con il processo per la strage del treno Napoli-Firenze-Bologna che è attualmente al dibattimento, collegamenti che risalgono a certi passaggi del ‘golpe Borghese’ […] in cui sicuramente era coinvolta la mafia siciliana: a tacer d’altro risulta dalle dichiarazioni convergenti, anche se inconsapevoli, di Buscetta, di Leggio e adesso di Calderone. Ci sono inoltre collegamenti con la presenza di Sindona, e sono tutti fatti noti. Questi elementi comportano per l’omicidio Mattarella, se non si vorrà gestire burocraticamente questo processo, la necessità di un’indagine molto approfondita che peraltro stiamo svolgendo e che prevediamo non si possa esaurire in tempi brevi”.

La pista dell’eversione nera, dunque, riecheggia concretamente nell’ambito di uno dei delitti più eccellenti, nell’omicidio di uno dei più importanti uomini dello Stato impegnati nel contrasto alle mafie, quale fu Piersanti Mattarella. E con il richiamo all’eversione fascista tornano alla mente tanti nomi che hanno insanguinato il Paese, come Concutelli, Delle Chiaie, Fioravanti, Cavallini, Ciavardini e altri. Alcuni di questi nomi li abbiamo sentiti nell’inchiesta di Fanpage che ha messo a nudo gli sproloqui nostalgici dei militanti di “Gioventù Nazionale”, l’organismo giovanile coccolato da Giorgia Meloni e da molti esponenti del suo partito. Un partito la cui guida ha sempre dichiarato di essere scesa in politica ispirandosi a Paolo Borsellino. Forse più per quella presunta corrispondenza di pensiero politico con il magistrato, di cui la destra, in nome sempre di quell’atavico complesso di inferiorità, si fregia.

Dimenticando, però, che Paolo Borsellino mai si è lasciato guidare o influenzare dal suo pensiero politico nell’esercizio delle sue funzioni. Così come Falcone e gli altri magistrati del pool mai hanno fatto accedere le proprie idee politiche nelle stanze della giustizia. Una giustizia che il governo Meloni, che oggi darà vita al solito dispendio di retorica di facciata, invece combatte e ostacola, tentando di svuotarla e privarla di strumenti importantissimi ai fini della lotta alla mafia. Perché, come sempre accade, al di là degli slogan e delle romantiche narrazioni politiche, sono i fatti, alla fine, a contare. E nei fatti, di lotta alla mafia questo governo ne ha fatta ben poca, per non dire nulla. D’altra parte, dovrebbe prima iniziare dal suo orto di casa, depurando e liberando le proprie sezioni e le proprie alleanze da chi inneggia a personaggi oscuri e colpevoli di aver tramato con la mafia e contro lo Stato. Lo stesso Stato di fronte a cui, senza reali meriti, ci si sente patrioti.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org