Ad Alisha, moglie di Satnam Singh, il bracciante indiano ucciso dallo sfruttamento e dalla disumanità del suo datore di lavoro, è stato concesso un permesso di soggiorno per motivi di giustizia. Un atto dovuto, sul piano della legge, ma una beffa crudele e ipocrita, sul piano morale. Un diritto che viene riconosciuto quando ormai è troppo tardi, quando una vita è già stata macinata dalla violenza e crudeltà dei padroni e dall’omertà e indifferenza di un sistema che si regge sul sangue degli ultimi. Il permesso di soggiorno non sana alcuna ferita, perché Satnam e Alisha non si rivedranno mai più, separati non solo dalla negazione dei diritti essenziali degli individui e dei lavoratori, ma anche da una logica feroce che purtroppo non appartiene solo ai Lovato, malefici protagonisti di questa vicenda, ma a una cospicua parte del settore agricolo e non solo. Una logica che galleggia nell’Agro pontino e in almeno altre 80 località italiane, nelle quali il caporalato e lo sfruttamento della manodopera, soprattutto di origine straniera, sono la regola.

Una regola che si ripete e si applica in modo strisciante ma tangibile, violando leggi e dignità piuttosto agevolmente, grazie alla quasi assenza di controlli e a una legislazione che, oltre a essere insufficiente, è anche di scarsa applicazione. La legge 199/2016, infatti, ha sì introdotto il reato di caporalato e alcuni strumenti utili a contrastare il fenomeno, ma le buone intenzioni di questa normativa si scontrano con l’inadeguatezza del sistema. Tale legge inasprisce le pene e le sanzioni, dà allo sfruttato qualche opportunità in più di affrancarsi, ma poi frana davanti alla debolezza dei controlli e alla inefficace applicazione di pene e sanzioni, per via anche degli ingranaggi arrugginiti della giustizia italiana. Ad ogni modo, quella legge non è e non poteva essere la soluzione. Perché non può prevenire né modificare la cultura dello sfruttamento del lavoro nelle campagne, uno sfruttamento che è espressione del modello economico attuale in cui, nell’ambito del mercato e della produzione, i più grandi schiacciano i più piccoli, che a loro volta si rifanno sull’anello più debole, esposto, ricattabile, ossia i lavoratori.

Ancor più se questi ultimi, oltre alla compressione dei diritti del lavoro, devono subire anche l’ingiusta violenza di una politica chiusa e ostile sui diritti di cittadinanza. Il caporalato, infatti, si può combattere solo se si restituisce cittadinanza piena ai lavoratori stranieri. Attenzione, questo non vuol dire che lo sfruttamento riguarda solo gli stranieri non in regola con il permesso di soggiorno, come qualcuno impropriamente racconta. Il sistema del caporalato si scarica sulla pelle di lavoratrici e lavoratori, in maggioranza stranieri, regolari e irregolari, che in questo Paese vengono trattati come cittadini di serie B, guardati con ostilità dalle comunità dei luoghi nei quali si recano a lavorare come stagionali o in cui lavorano e vivono tutto l’anno. Un clima difficile, nel quale il lavoratore, solo perché di origine non italiana, anche se in possesso di regolare permesso, non riesce ad esercitare pienamente la sua cittadinanza.

E qui veniamo anche alla narrazione mediatica del fenomeno, piena di errori, strafalcioni oppure di risvegli improvvisi. Qualche celebre direttore, ad  esempio, ha affermato che la vicenda di Singh dimostra quanto era stato detto qualche anno fa dal suo telegiornale circa l’esistenza di un sistema diffuso di sfruttamento nell’Agro pontino e in particolare nella zona di Latina. Una ridicola quanto inutile rivendicazione, che peraltro ignora le denunce e lo straordinario lavoro di Marco Omizzolo, il primo a svelare la situazione di sfruttamento atroce in quell’area, non fossero mai esistiti. Allo stesso modo, molte testate e alcuni esponenti politici stanno scoprendo l’oscenità del caporalato, l’inefficacia della legge, la crudeltà di cui sono capaci i “padroni”. Peccato che sono più di venti anni che, chi studia questa materia e chi su essa fa inchiesta, racconta l’orrore che si vive dentro i campi di raccolta. Un orrore che fa il paio con discriminazioni e razzismo, che nella storia italiana hanno già portato a casi di cronaca terribili, con i raid punitivi, gli omicidi, i ricatti sessuali, le sparizioni misteriose che hanno per vittime i braccianti stranieri.

Questo Paese è senza memoria e ha già dimenticato Jerry Masslo, Soumaila Sacko, Mohammed Abdullah, gli orrori subiti dalle lavoratrici e dai lavoratori di Rosarno, Foggia, Vittoria, Nardò, e ha dimenticato anche l’italiana Paola Clemente e tutti i braccianti finiti nel circuito feroce dello sfruttamento e della violenza nei campi. Ma l’Italia non è solo un Paese senza memoria, che presto condannerà all’oblio Satnam Singh, l’Italia è anche profondamente ipocrita e incapace di andare a fondo nella conoscenza dei fenomeni. Soprattutto, è un Paese che non riesce a fare giustizia, non riesce ad accettare il fatto di essere composto da tantissimi carnefici dalla camicia pulita e dalle facce comuni. E allora si continua a parlare di caporalato in modo casuale e solo quando un fatto di cronaca terribile fa notizia. Si parla di mafie e caporalato (contatto che riguarda solo alcune zone e alcuni casi) per fare in modo che la responsabilità si scarichi solo sui clan criminali, qualcosa di estraneo alla società legale. Ci si indigna per le parole sprezzanti di Renzo Lovato, come fossero qualcosa di raro e non invece la cruda espressione di una logica che accomuna tantissimi padroni e che ancora qualcuno, dentro le associazioni di categoria, continua a negare.

Si parla di lavoro senza contratto e “clandestini”, mentre tante aziende hanno da tempo approntato altre tecniche per aggirare la legge e ripararsi dai (rarissimi) controlli. Nello specifico, i lavoratori regolari vengono dotati di contratto, ma solo per una questione di forma, perché nella sostanza le ore lavorate sono molte di più di quelle denunciate, così come le paghe riportate sono più alte di quelle reali, spogliate dalle “tasse” illecite per i caporali e dalle trattenute ingiustificate da parte dei datori di lavoro, che in molti casi pagano il salario in contanti o con ricarica su Postapay decurtando a proprio piacimento la cifra. Inoltre, l’intermediazione continua ad essere affidata in buona parte ai caporali, che talvolta lavorano addirittura per le aziende, assunti con altre mansioni e poi, di fatto, impiegati per reclutare manodopera e spesso per “battere il tempo infernale” del lavoro a cottimo (più cassoni carichi più i caporali guadagnano). Oppure sono “esterni” ai quali le aziende si rivolgono solo per il reclutamento e che provvedono al trasporto sul luogo di lavoro.

In certe zone ci si fa forza della difficoltà dei sindacati di avvicinare i lavoratori e attivare procedure che possano prima di tutto tutelarli dalla presenza, negli accampamenti di fortuna, di subcaporali al soldo dei caporali. Un sistema rodato, quello messo in piedi da datori di lavoro, caporali e subcaporali, che diventa difficile da perforare e abbattere senza una strategia comune e concreta, sinergica, da parte di sindacato, enti territoriali, associazioni di categoria e istituzioni. Le stesse istituzioni che, spesso, come è avvenuto ad esempio a Cassibile (Siracusa), si limitano alla facciata, per costruire consenso e racimolare qualche misero voto in più. Nel caso specifico, le istituzioni locali hanno pensato di intervenire realizzando campi di accoglienza (container) per i lavoratori, ovviamente a pagamento (altri soldi tolti ai braccianti) e solo per chi è in possesso del permesso di soggiorno. Una strategia presentata in pompa magna che non tange minimamente il problema di fondo, non tocca il nocciolo della questione, vale a dire la lotta allo sfruttamento, il controllo della corretta corresponsione delle paghe, il trasporto in sicurezza sul luogo di lavoro, l’informazione sindacale e la tutela dei diritti di chi non ha un documento ma lavora 12-14 ore al giorno per far arrivare sulle nostre tavole e sui banchi dei supermercati della GDO i prodotti freschi, spesso venduti sottocosto.

Su quest’ultimo punto, assolutamente centrale e importante, va fatta poi una precisazione, dato che molti commentatori spesso finiscono per lasciarsi andare ad affermazioni che sembrano quasi delle giustificazioni. Il problema della sopravvivenza dei piccoli produttori, vessati dalla GDO e dai vari processi che dalla produzione portano alla commercializzazione dei prodotti, esiste e va risolto, ma questo non può in alcun modo spingere a comprendere o giustificare chi cerca di fare margine sulla pelle e sulla sicurezza dei lavoratori. Non esiste alcuna ragione che possa rendere comprensibile uno dei più odiosi crimini, ossia lo sfruttamento e la riduzione in schiavitù degli esseri umani.

Nella narrazione di questi giorni, ascoltiamo passaggi che contribuiscono ad accelerare il solito processo di de-responsabilizzazione di chi ha vessato un uomo, costretto a lavorare senza alcuna tutela e sicurezza e lo ha poi lasciato agonizzare per un proprio calcolo personale e di profitto. Una narrazione inaccettabile, perché chi sfrutta va punito e non va mai né capito né tantomeno giustificato. Punto. Allo stesso modo, i ministri, che hanno promesso azioni normative importanti sul tema, sappiano che, se vogliono realmente arginare questo odioso e radicato fenomeno, farebbero bene a rivedere prima di tutto le posizioni loro e dei loro partiti sull’immigrazione, magari iniziando a cancellare la Bossi-Fini e a riconoscere diritti prima che accada la tragedia e non dopo, come avviene sempre in questo Paese. Se davvero vogliono convincerci che la loro indignazione per quel che è accaduto a Satnam e Alisha è reale, allora dovrebbero smettere di fare la guerra agli ultimi e cercare piuttosto di favorire il riconoscimento di cittadinanza a chi vive in questo Paese. Perché una Repubblica democratica fondata sul lavoro ha l’obbligo di difendere i lavoratori da chi li sfrutta e si arricchisce sulla loro pelle.

Massimiliano Perna -ilmegafono.org