Satnam Singh, fino a pochi giorni fa era un nome che nessuno conosceva, il nome di uno dei tanti esseri umani inghiottiti dal buco nero dello sfruttamento, dove i diritti non ci sono e tu sei solo un pezzo di carne e di ossa da macinare in cambio di fatica, sudore e una paga misera (4-5 euro l’ora nel suo caso). Satnam Singh era indiano, aveva 31 anni e aveva già vissuto tutte le difficoltà di chi emigra per poter arrivare qui, in un nuovo Paese, in Europa, dove in teoria non esistono le caste invalicabili, dove qualche opportunità puoi riuscire ad averla per vivere una vita che un giorno ti possa portare almeno un minimo fuori dal livello di povertà. Qui viveva con Alisha, sua moglie, che lavorava insieme a lui in un’azienda agricola in provincia di Latina. Una coppia unita e affiatata, come raccontano i suoi colleghi, gli altri membri sconosciuti dell’esercito invisibile ma tangibile degli sfruttati.

Quelli che vengono macellati dal sistema criminale e razzista di cui fanno parte tantissime realtà del comparto produttivo italiano, in particolare quello agricolo. Piccole e medie imprese che si lamentano dei problemi del settore, ma che intanto scaricano tutta la loro feroce crudeltà sui lavoratori e sui diritti. Satnam Singh è stato un fantasma per questo Paese, non esisteva, per poter rivendicare di esistere è dovuto morire. Ucciso da chi lo aveva sfruttato, lasciato agonizzare, dissanguare, privato di soccorso. Un pezzo di carne divenuto inutilizzabile, perché un rullo gli ha mozzato un braccio mentre lavorava e, al contempo, gli ha provocato fratture multiple alle gambe.

Il sangue, le urla, la moglie Alisha che chiede al datore di lavoro di portarlo in ospedale per essere salvato e curato. Ma il datore di lavoro non è d’accordo, perché per lui Satnam è solo un numero, anzi un pezzo di carne e se non può rendere più, se per di più può creare problemi e accendere i riflettori sullo sfruttamento perpetrato in quella azienda, allora bisogna sbarazzarsene, ma con discrezione. Alisha racconta che il padrone, Antonello Lovato, ha sequestrato i loro telefoni e, dopo aver messo il braccio amputato dal macchinario in una cassetta di frutta, aiutato da un caporale, ha fatto salire i due coniugi sul furgone e li ha abbandonati per strada, davanti casa. Alisha chiede aiuto ai vicini, chiamano l’ambulanza, quando Satnam arriva in ospedale è passata un’ora e mezza dall’incidente e lui ha perso troppo sangue. Satnam muore. Di lavoro, crudeltà e sfruttamento.

Il dolore di Alisha non rimane solo, un collega del marito, anche lui sfruttato e senza permesso di soggiorno, testimonia ed è pronto a farlo in qualsiasi sede anche se ciò vale a denunciare la propria posizione di irregolare. Alisha stessa racconta tutto ai carabinieri, ci sono altri testimoni di questa storia orribile di caporalato e disumanità. Una disumanità che emerge, con irritante crudezza, dall’intervista rilasciata da Renzo Lovato, padre dell’imprenditore, che al Tg1 afferma che la colpa è del lavoratore che ha commesso “una leggerezza”, non ascoltando le indicazioni dei datori di lavoro. Una leggerezza, ripete. Insomma, non è un problema di diritti negati, lavoro nero, sfruttamento, caporalato, omissione di soccorso, crudeltà, no. È una leggerezza del lavoratore. La colpa di chi è vittima e non di chi è carnefice e, oltre a non mettere in regola i lavoratori, non ha nemmeno la coscienza e la dignità di salvare una vita.

“Il vostro Paese non è buono” avrebbe detto in lacrime Alisha, sottolineando come Lovato abbia messo gli interessi della sua azienda davanti alla vita di un essere umano. Ha ragione Alisha, questo Paese non è mai stato buono ed oggi è perfino peggiorato. La falsa idea degli “italiani brava gente” è una enorme bufala, che si scontra con la realtà. Ed è anche un Paese senza memoria, che dimenticherà Satnam e la sua morte, così come ha dimenticato tante altre vicende di ingiustizia e orrore.

La politica tace, nessuno scende in piazza, le leggi sul caporalato continueranno a essere come sono, insufficienti, come i controlli sulle aziende. Nelle aree di caporalato ci saranno interventi spot, come villaggi di accoglienza a pagamento, volontari che danno una mano a chi è senza diritti, ma questo continuerà a non toccare il problema di fondo, vale a dire il controllo repressivo sui datori di lavoro, sugli imprenditori e, aggiungo, anche sulle responsabilità delle istituzioni locali e delle confederazioni di categoria, inerti e spesso pure negazioniste sul tema dello sfruttamento e del caporalato che concerne le aziende associate.

Satnam Singh è solo un nome, uno di quei nomi che questa terra considera invisibili, anche se ci permettono di avere prodotti freschi da mangiare sulle nostre tavole, da mordere mentre guardiamo un tg e ci indigniamo per qualche minuto ascoltando una notizia, per poi dimenticarcene poco dopo e tornare alla nostra vita e alle nostre solite faccende.

Satnam Singh è morto e con la sua morte ha osato esistere, ha osato farci sapere chi era, quali sogni ha inseguito, quale amore ha costruito e ha dovuto improvvisamente abbandonare, sentendo lentamente e dolorosamente la vita sfuggire via, chiudere i suoi occhi nell’ingiustizia di un soccorso negato, di una ferocia inaudita.

Satnam Singh è uno dei tanti, non il primo e purtroppo nemmeno l’ultimo e muore dentro un Paese la cui anima striminzita diventa sempre più sporca, oscena, violenta, avvolto nel silenzio dei più e nell’assoluta indifferenza di un governo e di una politica che l’umanità l’hanno svenduta da tempo. A noi resta solo la rabbia, ma è una rabbia sterile, rinchiusa dentro le nostre vite, incapace di trovare un’ampia e concreta rappresentazione nelle piazze e per strada. Lì dove Satnam è stato sputato dal calcolo feroce di un padrone perfettamente coerente con il sistema produttivo e capitalistico che lo rende tale. 

Massimiliano Perna -ilmegafono.org