Da inizio 2024 si sono già registrati ben 17 suicidi nelle carceri italiane: un dato spaventoso, disumano, che però non riceve la giusta attenzione né da parte dell’opinione pubblica né, soprattutto, del governo attuale. Tutto ciò nonostante i moniti lanciati nel corso degli ultimi mesi dalle diverse associazioni di settore, nonché dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, appelli desolatamente caduti nel vuoto. Lo scorso 31 gennaio, infatti, Mattarella ha ricevuto al Quirinale il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Giovanni Russo. Nell’incontro, il capo dello Stato avrebbe espresso la propria preoccupazione nei confronti di due tematiche molto importanti, vale a dire il sovraffollamento delle carceri e il numero sempre più alto di suicidi presso le stesse. Tematiche strettamente collegate tra loro. A oggi, infatti, il tasso medio di presenze nelle carceri italiane è del 118%, con oltre 63mila detenuti presenti a fronte di 51 mila posti.
Ciò determina un livello qualitativo di vita e di permanenza precario, tra strutture sempre più fatiscenti, servizi igienici inesistenti o comunque fin troppo carenti e molto altro ancora. Non deve sorprendere, quindi, se rispetto al 2023 il tasso di suicidi si sia alzato così drasticamente: 17 in un mese e mezzo contro i 67 dello scorso anno. Di questo passo, a fine 2024, potremmo trovarci di fronte a una vera e propria ecatombe. “Il suicidio è a valle di tutti i problemi, non a monte” ha affermato Michele Miravalle, coordinatore nazionale dell’Osservatorio sulle condizioni detentive in Italia dell’associazione Antigone, che si occupa proprio di un tema fatidico come quello della giustizia penale. “In carcere, dove i tassi di suicidio sono molto superiori a quelli nella popolazione libera, la relazione tra l’ambiente di vita e il suicidio è molto evidente. Laddove c’è più sovraffollamento, meno proposte trattamentali e condizioni di vita non dignitose, si muore di più”. “Sembra ovvio – ha concluso Miravalle – ma la politica sembra non volerlo capire”.
Già, la politica: ma che fine ha fatto? E che fine hanno fatto i proclami dell’attuale governo fatti in sede di campagna elettorale e, ancora, poco dopo l’insediamento dello stesso? Fino a oggi, lo slogan del partito del presidente del Consiglio è rimasto quasi identico: bisogna costruire più carceri e riconvertire le caserme abbandonate. Certo, tutto molto semplice, se non fosse che per costruire degli edifici del genere ci vogliono anni, così come riutilizzare altri luoghi non proprio adatti. Peccato, poi, che il problema sia qui e adesso e che, vista la situazione, non ci si possa permettere di rimandare ulteriormente. “L’edilizia penitenziaria di cui la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, e il ministro della Giustizia, Nordio, continuano a parlare dal giorno del loro insediamento – si legge in un comunicato rilasciato da Antigone – non può essere la soluzione per diverse ragioni, tra tutte i costi e i tempi”. “Per costruire un carcere di 250 posti – scrive l’associazione – servono circa 25 milioni di euro: oggi, per i numeri che abbiamo, di nuove carceri ne servirebbero 52, per una spesa che si aggira sul miliardo e 300 milioni di euro”.
Inoltre, Antigone ricorda che “le carceri vanno riempite anche di personale (agenti, educatori, psicologi, direttori, medici, psichiatri, amministrativi, assistenti sociali, mediatori, ecc.) con un aumento annuo del bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Ministero della Salute, che già oggi fanno fatica a garantire le presenze necessarie, con tutte le figure professionali in pesante sotto organico”. Insomma, quello di Meloni e del governo si è rivelato essere l’ennesimo spot elettorale privo di fondamenta. Lo stesso Russo, dopo l’incontro con Mattarella, non si è pronunciato più di tanto sul problema o sulle possibili soluzioni, affermando che alcune di queste potrebbero “evocare l’impunità”. Ma è davvero così? Tra le soluzioni proposte da Antigone, ad esempio, vi sarebbe un “aumento delle misure alternative, più economiche rispetto alla carcerazione e con tassi di recidiva minori”. Una di queste consisterebbe nella “diminuzione dell’uso della custodia cautelare”, che vede l’Italia costantemente al di sopra della media europea.
C’è poi il tema droghe: secondo l’associazione Antigone, bisognerebbe “avere il coraggio di mettere mano all’attuale legge sulle droghe, che da anni produce un terzo delle persone detenute, la maggior parte delle quali condannate per reati legati alla cannabis”. Se è vero che questo tema al momento è utopia (specie di fronte a un governo di centrodestra), è altrettanto vera l’inutilità di pene severe per un reato che in diverse parti del mondo è stato depenalizzato o addirittura eliminato del tutto tramite la legalizzazione. In questo modo si avrebbero dei benefici reali e immediati, senza mettere in mezzo l’edilizia e la burocrazia italiana. Infine, ma non perché meno importante, sarebbe necessario “migliorare la qualità della vita in carcere, garantendo più telefonate, più contatti con la famiglia, più opportunità di lavoro, di studio, di attività”.
Per Antigone “sono queste le politiche che favoriscono un clima interno più disteso e costruiscono percorsi alternativi per chi ha commesso un reato”, e non certo, aggiungiamo noi, le strutture fatiscenti e le condizioni deplorevoli in cui queste persone sono costrette a vivere. Spesso, in Italia, chi commette un reato è visto come un reietto della società che deve essere lasciato all’abbandono più totale. Lo spirito “forcaiolo” del nostro Paese non si è mai affievolito, anzi: proprio negli ultimi tempi sembra ci sia una sorta di ricerca spasmodica di “giustizialismo”, una tendenza a fornire una definizione immutabile dei fatti, delle cose e delle persone. Senza alcuna apertura alla logica del recupero, della formazione di una persona nuova, che possa tirarsi fuori dal suo percorso di devianza e rinascere dentro la società. La realtà non è mai immutabile, ma è fatta di tante, piccole sfumature che possono rivelarsi determinanti. Soprattutto quando si parla di esseri umani. L’Italia è un Paese democratico in cui i diritti degli individui (tutti) dovrebbero essere rispettati. Ecco, crediamo che questo sia un aspetto che un Paese non può, non deve dimenticare. Mai.
Giovanni Dato -ilmegafono.org
Commenti recenti