Ci sono molti modi di essere uomo, ci sono molti modi di essere giornalista. Mario Francese ha scelto di esserlo nel modo meno semplice. Ha deciso di essere un uomo dalla schiena dritta, un giornalista serio e coraggioso ed ha pagato con la vita queste sue decisioni. Solo pochi giorni fa, è stato commemorato il 45esimo anniversario della sua morte violenta per mano mafiosa. Francese fu infatti assassinato con diversi colpi di pistola, la sera del 26 gennaio 1979, in via Campania, a Palermo, mentre rientrava nella propria abitazione. A premere il grilletto fu il boss Leoluca Bagarella, che in quell’occasione aveva potuto contare sulla complicità di altri affiliati. La prima condanna per quel brutale attentato di matrice mafiosa si ebbe però ben 22 anni dopo, perché per molto tempo l’intera vicenda fu insabbiata.
A dare vigore alle indagini fu l’insistenza della famiglia del giornalista, in particolare modo del figlio minore, Giuseppe, che era appena 12enne quando udì i sei colpi di pistola che tolsero la vita al padre, e che poi, corroso dal dolore, morì suicida nel settembre del 2002, dopo aver ottenuto le prime sentenze di condanna per i criminali che gli avevano irrimediabilmente rovinato la vita. Giuseppe aveva ereditato dal padre l’abilità a scrivere ed il coraggio e non esitò a denunciare apertamente quanto di oscuro e ingiusto ruotasse intorno alla morte di Mario Francese. In un articolo del 1998, “Castello di rabbia”, descrisse il sipario calato sull’attentato, indicando tra i colpevoli anche colleghi giornalisti. Concluse il suo articolo-denuncia con la speranza che “i miei ‘castelli di rabbia’ si trasformino presto in semplici castelli di sabbia costruiti in una quieta spiaggia, spianata dalla verità e dalla giustizia”.
La verità che le indagini e i processi hanno finalmente cristallizzato sull’attentato a Mario Francese, ci racconta che il giornalista fu assassinato per essere stato il primo a denunciare gli affari e l’ascesa del clan dei corleonesi attraverso le sue inchieste condotte per il “Giornale di Sicilia” sui boss Liggio, Riina e Provenzano. Fu ucciso ad apertura della stagione stragista proprio come monito per chiunque avesse l’ardire di denunciare i fatti criminosi che venivano compiuti a Palermo e in Sicilia. Oggi, a quasi 50 anni di distanza, in occasione del compleanno del giornalista, che era nato il 6 febbraio, il regalo che virtualmente gli e ci auguriamo è che, dal suo esempio, prenda vita una nuova stagione di giornalisti veri, meno inclini a compromessi e paure e più “servitori della verità” poiché, come recita un antico proverbio, “la penna è più potente della spada”. Un esercito di Giornalisti (la G maiuscola è voluta) potrebbe fare realmente la differenza nella lotta al crimine organizzato e nel progresso culturale e civile di questo Paese.
Anna Serrapelle -ilmegafomo.org
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