Sembra un copione già scritto: scoppia un nuovo (si fa per dire) conflitto internazionale e il dibattito ideologico s’innesca in automatico, nell’arena privilegiata di chi guarda il mondo dall’alto e ragiona per categorie e idee ormai superate. Lo schema è più o meno lo stesso: comunisti contro fascisti, buoni contro cattivi, oppressi contro oppressori, ricchi contro poveri e così via, semplificazioni che, applicate ai conflitti, creano spesso confusione e qualunquismi diffusi. È successo per la guerra tra Russia e Ucraina e sta succedendo in questi giorni, in queste ore anzi, per la guerra scoppiata sabato 7 ottobre sulla striscia di Gaza, un grande classico per le ideologie: Hamas contro Israele. E sottolineiamo Hamas, non Palestina. Se per la guerra in Ucraina i nostalgici pensavano che schierarsi dalla parte di Putin significasse lodare gli antichi fasti della “comunistissima” Unione Sovietica, oggi in molti sventolano le bandiere della Palestina per ogni bomba, ogni attacco, ogni bambino ucciso da Hamas. E qui scatta il cortocircuito ideologico e mediatico.
Tutti conosciamo la storia di Israele, uno stato invasore che ha occupato una “terra promessa” a scapito della Palestina e del suo popolo. Sono trascorsi decenni di tensioni, fino ad arrivare alla storica foto della stretta di mano tra Rabin e Arafat a Oslo nel 1993, officiata dall’allora presidente USA Bill Clinton, immagine che sembra vecchia ormai di un secolo. Certo, sono passati trent’anni, che in termini geopolitici sono un’eternità, ma sembra di essere tornati indietro alla barbarie più nera. Israele è uno stato invasore, dicevamo. Questo però non può ricadere sugli innocenti che oggi lo abitano.
L’attacco di Hamas del 7 ottobre è stato senza precedenti: i terroristi hanno colpito e rapito dei civili puntando su obiettivi come un rave party per celebrare la natura. Un rave al quale stavano partecipando centinaia di giovani, molti dei quali sono stati rapiti e torturati. Molte case sono state depredate, anziani e bambini uccisi, decapitati, come vediamo dalle immagini più cruente, intere zone residenziali sono state saccheggiate, in un attacco dal quale emerge una ferocia che richiama più il modus operandi dei fondamentalisti in stile Isis che quello di chi combatte una guerra di liberazione. Nel cielo riecheggiano le sirene, un suono che le nuove generazioni conoscono troppo bene, ma che mai come questa volta ha significato morte, paura, distruzione.
Tutto questo per fare una brevissima e sicuramente incompleta sintesi di quanto commesso da Hamas, un gruppo di terroristi che dietro l’apparente volontà di liberare la Palestina, si fonda su una matrice violenta, misogina e fondamentalista che di certo non può fare gli interessi del popolo palestinese, anzi va proprio contro la sacrosanta causa palestinese. Dall’altro lato, la politica dell’estrema destra israeliana, alla guida del paese con Benjamin Netanyahu, accusato di una politica di espropriazione e annessione, che ignora i diritti dei palestinesi e che ha trovato la scusante per poter usare, nella reazione all’attacco, una violenza spropositata, togliendo ai civili palestinesi, acqua, luce, rifornimenti di cibo. Un modo per mettere in ginocchio un popolo che, in gran parte, non ha nulla a che vedere con Hamas.
Sul quotidiano progressista israeliano Haarets si legge all’indomani degli attacchi di Hamas: “Il disastro che si è abbattuto su Israele (…) è chiaramente responsabilità di una sola persona: Benjamin Netanyahu. Il primo ministro si è vantato della sua vasta esperienza politica e della sua insostituibile saggezza in materia di sicurezza, ma ha completamente fallito nell’identificare i pericoli a cui stava consapevolmente conducendo Israele quando ha istituito un governo di annessione ed espropriazione, quando ha nominato Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir in posizioni chiave, mentre ha abbracciato una politica estera che ignorava apertamente l’esistenza e i diritti dei palestinesi”.
Violenza su violenza, ed ecco il risultato disastroso. Alla violenza quotidiana degli israeliani sul popolo palestinese, si è aggiunta una atroce carneficina di innocenti causata da un gruppo di terroristi vigliacchi e sanguinari. Un’escalation senza precedenti della quale sembra molto difficile venire a capo. Dunque, chi ha ragione? Da che parte bisogna schierarsi? Qual è la bandiera da sventolare fuori dagli edifici pubblici o nelle piazze? Qual è la posizione giusta da prendere per rispettare il proprio voto in cabina elettorale? Ancora una volta il conflitto arabo israeliano diventa, per i cultori di ideologie fuori dal tempo, vecchie come la geopolitica e il contesto storico in cui è nato lo stato di Israele, campo di battaglia sulla pelle dei civili palestinesi ed israeliani vittime della guerra.
Ci sono quelli che credono di essere più di sinistra se appoggiano Hamas, con tanto di bandiera palestinese tirata fuori all’occorrenza. Una posizione che ha punti di contatto con quella dell’estrema destra, da Fiore agli altri, che stanno con Hamas. Poi c’è la destra di governo, per la quale appoggiare Israele diventa una sorta di palliativo per lavarsi la faccia dall’antisemitismo di tante frange e di tanti esponenti dei loro partiti: in fondo, meglio sostenere una religione e una cultura più vicina alle radici cristiane, piuttosto che un popolo di matrice araba, giusto? Poco importa il fascismo serpeggiante e malcelato nella vita quotidiana.
Comunque la si pensi, il tifo da stadio, con i vari “Forza Hamas” e “Forza Israele”, corredato dalle opportune bandiere, sa di ridicolo e di anacronismo. Sa di chiusura all’evoluzione, dove il dialogo e la pace dovrebbero essere le uniche vie perseguibili, concetti tanto di sinistra, quanto di destra. Invece no. Si guarda a un passato che appartiene a un mondo completamente diverso e ormai lontano. Un passato nel quale una buona percentuale di quelli che oggi vanno in giro in kefiah o facendo il saluto romano, probabilmente non avrebbero trovato nemmeno uno spazio per esprimersi.
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