A distanza di sette anni dalla scomparsa di Maria Chindamo, finalmente potrebbe essere fatta luce su quello che, secondo quanto scoperto dagli inquirenti, è stato un omicidio efferato. Maria Chindamo, imprenditrice calabrese di Laureana di Borrello (RC), scompare all’improvviso nel maggio del 2016 mentre si trova nella sua tenuta agricola a Limbadi (VV). Il passato di Maria è segnato anche da una vicenda tragica: un anno prima, infatti, il marito, Ferdinando Puntoriero, si sarebbe suicidato a seguito della separazione mai accettata, causando così l’ira della famiglia dello stesso nei confronti della donna. Inoltre, la Chindamo si sarebbe rifiutata di cedere le terre della sua azienda agricola, resistendo alle pressioni di Salvatore Ascone, detto u Pinnolaro, legato al potente clan dei Mancuso. Insomma, Maria, laureata e madre di tre figli, aveva scelto di vivere con la schiena dritta, libera, così come ogni persona su questo pianeta dovrebbe avere il diritto di fare. Purtroppo, però, in certi contesti questo concetto di libertà disturba, non è contemplato, non può avere spazio.
La sua nuova frequentazione con un uomo, certificata da un post su Facebook, un anno dopo la morte del marito, avrebbe acceso ulteriormente l’ira dei familiari dell’ex coniuge. Trovandosi dunque a gestire l’azienda di famiglia, la Chindamo avrebbe causato malcontenti sia alla famiglia Puntoriero sia ad Ascone e, dunque, al clan dei Mancuso, uno dei più feroci e potenti della Calabria che, come detto, da tempo aveva messo gli occhi su quei terreni e che aveva preso molto male il rifiuto opposto dall’imprenditrice. Così, due giorni dopo quel post su Facebook, Maria scompare. Da lì inizia il lungo travaglio della famiglia della donna che, nonostante le difficoltà del caso (non è semplice denunciare un evento del genere in un territorio controllato dalla ‘ndrangheta), non si è mai tirata indietro e ha sempre collaborato con gli inquirenti per cercare di arrivare alla verità.
Un travaglio lungo e doloroso che però ha smosso qualcosa, visto che la scorsa settimana, l’operazione “Maestrale-Carthago”, condotta dalla direzione distrettuale antimafia di Catanzaro, con la guida di Nicola Gratteri, ha portato all’arresto di 84 persone fra mafiosi e affiliati vari. Un’operazione di vasta scala che, oltre ad aver impiegato più di 600 carabinieri, è riuscita a incastrare elementi che nella vicenda Chindamo hanno avuto un ruolo cruciale, tra cui proprio Salvatore Ascone, faccendiere del clan Mancuso e, con ogni probabilità, killer della stessa donna. Grazie all’utilizzo di intercettazioni ambientali, nonché alle parole di diversi collaboratori di giustizia, gli inquirenti sono riusciti a risalire ai fatti di quel triste giorno: Ascone, infatti, avrebbe dapprima manomesso le telecamere di servizio dell’azienda, quindi avrebbe ucciso la Chindamo, per poi farne sparire il corpo, dandolo in pasto ai maiali. Infine, il criminale si sarebbe liberato delle ossa usando una fresa o addirittura un trattore, polverizzando così ogni singola traccia di quel che restava del corpo della donna.
Un omicidio atroce che con ogni probabilità, come dicevamo, potrebbe essere stato pianificato da diverse persone con diversi intenti. Potrebbe essere stato deciso ed eseguito da Ascone e dai Mancuso, pensando di far ricadere poi la colpa sui familiari dell’ex marito della donna, furiosi con lei. Oppure potrebbe esserci stato un concorso di volontà e decisioni. Secondo il procuratore Gratteri, “ci sono vari aspetti sull’omicidio di Maria Chindamo: non gli è stata perdonata la sua libertà, la gestione dei terreni avuti in eredità, e su cui c’erano gli appetiti di una famiglia di ‘ndrangheta, e il suo nuovo amore”. Da un lato, quindi, la famiglia dell’ex marito, rea di aver voluto punire una volta per tutte una donna che aveva osato emanciparsi; dall’altro la ‘ndrangheta, che non accettava l’ostinazione della Chindamo nel non piegarsi a leggi e dettami mafiosi.
“Questa sua libertà, questa sua voglia di essere indipendente, di essere donna – ha continuato lo stesso Gratteri – non le è stata perdonata e, tre giorni dopo che aveva postato sui social la foto con il suo nuovo compagno, è sparita”. Il metodo con cui è stata uccisa, “dà il senso e la misura della rabbia e del risentimento che chi ha ordinato l’omicidio aveva nei suoi confronti”. “Lei – conclude il procuratore – non si poteva permettere il lusso di rifarsi una vita, di gestire in modo imprenditoriale quel terreno e di poter curare e fare crescere i figli in modo libero e uscendo dalla mentalità mafiosa”. Una mentalità che ancora oggi controlla grosse fette di territorio, ma che rischia allo stesso tempo di ritorcersi contro la criminalità stessa. In una nota rilasciata dalla Goel, una cooperativa di cui fa parte anche Vincenzo, fratello di Maria, si è voluta porre l’attenzione anche su una certa “stupidità” della ‘ndrangheta.
“Non solo non hanno avuto i terreni di Maria – si legge nella nota – ma hanno innescato una reazione a catena esattamente opposta e contraria: hanno attirato Goel con la sua grande comunità, che è diventato il curatore dei terreni di Maria. “La ‘ndrangheta non è solo cattiva, ma è anche stupida e fallimentare. Può sembrare nel breve periodo che sia più forte o più furba, ma le famiglie di ‘ndrangheta hanno solo la rovina come loro orizzonte”. Parole che hanno un peso importante, dure e piene di verità, ma anche di speranza e fiducia nella giustizia e in valori importanti come la legalità, il bene comune, l’etica civile. Ciò che adesso serve però è soprattutto la memoria attiva, far sì che queste storie non finiscano nel dimenticatoio, ma, al contrario, che siano raccontate rovesciando la prospettiva, sottolineando, come ha fatto Goel, che, in fondo, chi fa del male non vince mai.
Giovanni Dato -ilmegafono.org
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