L’Italia adesso si è accorta di Caivano. Si è dovuto verificare l’ennesimo caso di violenza inaudita per far finalmente giungere la voce di chi, nelle periferie, resiste e lavora per costruire laddove lo Stato abbandona le macerie del proprio fallimento. Prima ci sono stati Scampia, Brancaccio, lo Zen, Librino, Corviale, oggi si scopre, o meglio riscopre, un altro luogo, una periferia che da anni è teatro di casi eclatanti, un’altra zona complessa nella quale i comuni cittadini vengono lasciati soli, alcuni a combattere, altri a subire, con in più l’onta dello stereotipo odioso, del marchio indelebile che viene sempre appiccicato a tutti, indiscriminatamente, solo sulla base della residenza in un determinato quartiere. Un po’ come avviene con i giovani di oggi, sempre più dipinti come una massa indistinta sulla base dei casi di cronaca, delle violenze, dei modelli di vita deviante che ripropongono e che vengono raccontati dai media con dovizia di particolari.
Lo shock e la rabbia che ne derivano non sono certo buoni alleati della razionalità e così i ragionamenti si annacquano o si sporcano, oppure finiscono per trasformarsi in pensieri urlati e isolati, in scontri sterili tra fazioni virtuali, in indignazione facile che produce soluzioni inefficaci e ipocrite. Siamo sommersi dalla violenza e quest’estate abbiamo osservato quotidianamente, nel dettaglio, dove può arrivare la ferocia umana, talmente brutale da superare ogni limite di immaginazione. Ma l’abbiamo osservata passivamente, ingurgitando quintali di dolore altrui, immedesimandoci in quel dolore che, però, senza uno sfogo sociale, senza un ragionamento strutturato, politico nel senso più profondo, non porta a nulla.
Ci siamo dimenticati innanzitutto di chi contro quella violenza combatte e denuncia, inascoltato, senza mai ottenere un aiuto concreto, un sostegno politico, una battaglia condivisa. Ci siamo dimenticati di chi da anni chiede misure efficaci, economiche e normative, contro la violenza sulle donne. Ci siamo dimenticati di chi da anni protesta per un sistema scolastico gradualmente e scientificamente smontato, pezzo per pezzo, da coloro i quali, ad ogni livello, hanno detenuto le leve di comando. Ci siamo dimenticati di chi da anni opera nelle periferie e parla della necessità di riqualificare, combattere il degrado e l’emarginazione che ne consegue, ma soprattutto fornire servizi, creare o sostenere luoghi di aggregazione, iniziative, aree vivibili, spazi culturali e formativi. Ci siamo dimenticati di parlare delle responsabilità, che sono chiare e dirette.
Quello che è accaduto in questi ultimi mesi altro non è che lo specchio lercio del fallimento della politica italiana, che ha dimenticato le priorità per andare dietro a facili consensi. È lo specchio di una società che blatera di famiglia naturale e di valori e poi fa i conti con padri e madri maleducati e male educanti che si prodigano nella difesa acritica e nociva dei loro figli stupratori o assassini. Qualcuno forse oggi si renderà conto di quanto ci sarebbe stato bisogno di strutture e di norme adeguate di prevenzione, di una scuola pubblica rafforzata e non mutilata nella sua funzione più importante, ossia quella educativa, ormai sottomessa a quella manageriale o tecnica. Qualcuno forse si renderà conto di quanto ci sarebbe stato bisogno di investimenti seri su welfare e servizi sociali, sulla riqualificazione urbana, sullo sport, sulla cultura. Qualcuno forse si renderà conto che la riforma della giustizia non dovrebbe essere animata da brame giustizialiste o da interessi di parte (politica ed economica), bensì dalla necessità di dotare la macchina giudiziaria di strumenti che possano garantire uguaglianza di fronte alla legge e una corretta e certa applicazione (per tutti) delle leggi e delle pene già esistenti.
Oggi la destra al governo, quella che per anni ha lavorato per difendere l’impunità dei potenti e soffiato sul fuoco pericoloso dell’odio contro i deboli, sul linguaggio discriminatorio (l’appoggio di alcune forze a Vannacci è solo l’ultimo caso), sulla colpevolizzazione degli ultimi e delle vittime (i casi La Russa e Giambruno), risponde con la stretta repressiva, con misure goffe che peraltro non tengono conto della situazione reale, di un Paese con personale di polizia sottodimensionato, un Paese depotenziato negli strumenti di prevenzione e controllo, con carceri in grandissima parte orribili e inadeguate, affollate in gran parte da pesci piccoli, da gente che vive male ed esce peggio, se non si ammazza prima. La destra oggi al governo si è disinteressata di welfare o di lotta alla criminalità, perché in questi anni ha passato il suo tempo a fare la guerra agli ultimi, ha trasformato scientemente un tema umanitario come quello dell’immigrazione in una questione politica, ottusamente securitaria, spendendo parole inascoltabili, tempo e risorse.
Oggi, il Paese, da qualsiasi punto lo guardi, sembra vuoto, bucato, una nazione che fa acqua. L’Italia vive a fiammate, rende centrale un tema per qualche tempo, qualche settimana o un mese, poi lo rimanda nell’oblio. Le periferie, la scuola, la violenza sulle donne, così come la sanità, la lotta alle mafie e la sicurezza sul lavoro, sono temi spot, che si bruciano in fretta e non interessano più di tanto, perché richiederebbero interventi seri, investimenti, scelte impopolari. Non sono convenienti sul piano elettorale, che è il solo che interessa le forze di governo e purtroppo, in gran parte, anche quelle di opposizione. Perché lavorare alle periferie, davvero, rinunciando alla strategia del mettere “i poveri” uno contro l’altro, significa costruire cittadinanza, un verbo che questa classe politica non conosce. Allora, agli allarmi sulla violenza giovanile, a quelli che arrivano da Caivano, dove in realtà non hanno mai smesso di suonare, si preferisce rispondere con norme inutili e inattuabili.
Sia chiaro, l’aspetto repressivo verso certe forme di violenza è importante, così come la certezza che poi le pene vengano scontate, ma se lo Stato a ciò non accompagna percorsi di recupero e soprattutto strategie radicate di prevenzione sociale, allora è tutto perfettamente inutile. Aumenteranno gli arresti, ma le prigioni non basteranno, perché sono al collasso, e allora si opterà per i domiciliari, come già avviene, senza pensare che non ci sono abbastanza pattuglie e uomini per controllare quotidianamente il rispetto della misura. In poche parole, si consegna a chi delinque persino la spocchia di aver fregato lo Stato ancora una volta, con una crescita ulteriore della propria dimensione criminale e con l’effetto di scoraggiare qualsiasi forma di denuncia o ribellione. Tutto questo in un Paese che non investe sul sociale, sulle periferie, sulla legalità e sulla cultura.
Per quanto riguarda il contrasto alla violenza nei confronti delle donne, poi, siamo messi ancora peggio. D’altra parte, se a casa della premier domina ancora il pensiero maschilista del “se l’è andata a cercare” o “ragazze state attente, perché fuori ci sono gli stupratori”, è difficile sperare che possano arrivare soluzioni o norme adeguate. Siamo pur sempre il Paese in cui c’è chi la violenza continua a considerarla giustizia. Come al Quarticciolo, dove uno scippatore viene linciato da un gruppetto di “angeli” avvisati da… uno spacciatore. Surreale e grottesco, se non fosse drammaticamente triste. Come il volto di questa nazione che non riesce più a smettere di camminare tragicamente all’indietro.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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