“Si parla della guerra: la facciamo, non la facciamo, con chi stiamo, che posizione prendiamo, come la combattiamo. Parlare, discutere, litigare sulla guerra. E viverla? Come si sta a viverla? Che cosa si pensa, quando la si vive? Che cosa si prova, dentro la guerra? Quali miserie, quali angosce, come si trema durante la guerra? Proviamo a guardare la realtà di chi ne viene coinvolto, proviamo a passare questo confine…Proviamoci. Dopo, forse, potremo parlare della guerra a buon diritto e, quasi certamente, in modo diverso” (Gino Strada, dal libro “Buskashì”)
Guardare alla guerra, a tutte le guerre, ci obbliga a guardare la società globale nel suo insieme: gli Stati e le politiche che ne guidano le sorti. Da un punto di vista etico e ideale la guerra e la politica viaggiano su binari diametralmente opposti ma, appunto, è solo un punto di vista ideale. La storia mescola le carte e mostra una fotografia diversa, racconta che troppe volte la politica è alla base delle guerre che nascono, prosperano e finiscono. Eppure, la politica dovrebbe opporsi alla logica di guerra. Se così non è, o lo è solo in minima parte, significa che troppe domande non hanno avuto risposte. Hannah Arendt ha provato a vedere “la banalità del male” nella condizione umana che cerca nella sopraffazione una strada che l’uomo comune, nella sua mediocrità, sceglie per uscire dalla propria alienazione. È un passo importante da comprendere, perché dietro ogni classe politica, dietro ogni regime totalitario e dietro ogni scelta di guerra, c’è una base umana di individui che accettano e legittimano.
La guerra in Ucraina non è cominciata nel febbraio del 2022, ha una genesi che parte da lontano anche se molti fingono di non saperlo. Dagli accordi di Minsk del 2014 al febbraio del 2022 sono passati otto anni di immobilismo della politica e della diplomazia internazionale, nessun tentativo di mediazione su una tensione che aumentava ogni giorno. Silenzio e immobilismo che valgono per quasi tutti le guerre in corso nel mondo. Domina la logica del potere degli Stati e manca la volontà di costruire le condizioni che impediscano che le guerre esplodano. Sono decine i conflitti in corso nel mondo, dimenticate e ignorate perché considerate lontane, non percepite per quello che ogni guerra è: un insulto all’umanità. La lezione che la storia ha scritto da sempre, in modo particolare dalla fine della Seconda guerra mondiale e dopo il nuovo scacchiere geopolitico che si è creato con la caduta dei muri, non viene capita: una guerra non si vince mai definitivamente.
Le guerre assurde condotte dall’Occidente contro Iraq e Afghanistan, quella nella ex-Jugoslavia, sono lì davanti a noi, a dimostrarlo. Nel caso specifico della guerra in Ucraina, il dato sconcertante è che si pensa di spegnere una guerra inviando armi a una delle parti in causa e colpendo economicamente la seconda, fingendo di non capire che così facendo non si ferma una guerra ma la si prolunga. Ecco allora che la voce di un movimento pacifista, forte e unitario, diventa l’unica via utile. C’è ancora questa voce? La storia dei movimenti pacifisti è una storia antica. Le prime voci organizzate del pacifismo nascono nei primi anni dell’800 negli Stati Uniti e in Gran Bretagna, ma è indubbio che il momento più importante e straordinario dei movimenti pacifisti è quello nato negli USA – e poi arrivato in Europa – contro la guerra americana in Vietnam. Il Vietnam è stato lo spartiacque, lo strappo generazionale capace di conferire ai movimenti pacifisti una connotazione internazionale. Oggi esiste ancora quella connotazione internazionale? E, se esiste, cosa gli impedisce di avere quella forza e quell’unità che oggi sono vitali e necessarie come lo erano in quegli anni?
Non si tratta di replicare qualcosa di irripetibile, ma di trovare quei punti comuni che, oggi come allora, rappresentano la minaccia e il pericolo per un futuro che sfugge di mano. Ri-prendere coscienza del bisogno di un ripensamento collettivo, oggi più che mai necessario per provare a cambiare quel modello di società sbagliato, in cui la guerra è sempre lo strumento di morte che divide il mondo in piani sovrapposti: ai piani alti vive il potere politico, economico e finanziario, che decide quando, dove, come e perché. Ai piani bassi vivono gli ultimi e i penultimi, le vittime di guerre e genocidi. Nel febbraio 2003 oltre cento milioni di persone riempivano le piazze di 600 città per protestare contro la guerra in Iraq. In Italia, la piazza di Roma abbracciò 3 milioni di persone. La sporca guerra per il petrolio, voluta dagli USA e giustificata con ogni bugia, scoppiò comunque e l’Italia ne prese parte. Pensare che quelle manifestazioni furono inutili sarebbe un grave errore: certo, non fermarono l’invasione dell’Iraq, ma quel grande movimento fece crescere la consapevolezza degli interessi geopolitici ed economici che erano dietro quella guerra.
Cosa è rimasto di quella consapevolezza? Oggi il movimento pacifista, in Italia ma non solo, ha trovato nemici ovunque dall’inizio della guerra in Ucraina. Ogni volta che è sceso in piazza, ogni volta che ha provato ad alzare la voce, il pacifismo è stato accusato di non capire e di essere dalla parte della Russia e di Vladimir Putin. Un attacco, mediatico e politico, studiato e portato avanti scientificamente soprattutto da coloro che più di tutti hanno avuto, prima dello scoppio del conflitto, imbarazzanti rapporti politici ed economici sia con la Russia di Putin che con l’Ucraina. È sempre interessante rileggere le pagine di storia, ricordare che i grandi alleati di Putin sedevano sempre alla destra del tavolo della politica italiana ed europea. Eppure questo non ha impedito di coprire di accuse e insulti chi chiedeva negoziati di pace e chi si opponeva e si oppone ancora all’invio delle armi. Politici e opinionisti hanno puntato il dito sull’incoerenza dei pacifisti, citando la guerra di Spagna e la lotta di liberazione in Vietnam, accusandoli di accettare l’invio delle armi solo a quelli che piacciono.
Questi signori hanno stravolto la verità: in tutti i casi citati, il movimento pacifista ha sempre messo in campo la pressione politica per chiedere giustizia e la fine delle guerre, anche durante il macello nella ex-Jugoslavia, quando le diplomazie hanno taciuto prima e bombardato poi. Quanto alla guerra in Vietnam, una vergogna che gli USA non potranno mai cancellare, c’era un mondo intero che scendeva nelle piazze per chiederne la fine. “La guerra definisce l’ambiente ideale per produrre nuovi fascismi e per cancellare ogni istanza di liberazione e basterebbe questo per lottare per la pace”: ad affermarlo è Raúl Sánchez Cedillo, filosofo e attivista spagnolo, in una conversazione con Pablo Iglesias dove sottolinea il parallelo tra quello che accade oggi in Ucraina e la situazione in Europa che portò alla Prima guerra mondiale.
La fotografia di questa guerra mostra chiaro il volto imperialista di tutti i suoi protagonisti: la potenza militare e nucleare è un fattore comune, come l’insieme dei vorticosi interessi strategici dal punto di vista geopolitico, economico e industriale. Tutti elementi che devono dare forza e unità alla voce dei movimenti pacifisti, che spesso consumano energie e intelligenza in equivoci politici che limitano la loro azione e la loro capacità di penetrazione nel tessuto umano di un Paese troppo diviso, anche sulla parola guerra. Le anime del movimento pacifista sono tante, ognuna di loro ha diritto di cittadinanza e merita rispetto. Non può e non deve esserci spazio per interessi di parte e/o di partito: il gioco è troppo grande e troppo pericoloso, coinvolge il destino e il futuro di un’umanità che oggi è ostaggio di mercanti e mercati.
Alex Zanotelli, missionario comboniano e pietra miliare del pacifismo italiano, ha un’idea molto chiara sulla guerra: c’è già un vincitore, è l’industria delle armi. E i “dannati della Terra” sono gli sconfitti. Ha idee chiare anche sul coraggio necessario, sul qualcosa in più che il movimento pacifista deve mettere in campo, subito e senza paura. “Basta un niente – afferma Zanotelli – e può saltare tutto. La guerra in Ucraina è sempre più pericolosa, perché siamo davanti a due superpotenze nucleari: la Russia e gli Stati Uniti, cui si aggiunge la NATO. E non è uno scherzo…Rimango dell’opinione che bisogna avere il coraggio di parlare chiaro. Il problema del nucleare è enorme e non è così semplice risolverlo. Ritengo serva molto coraggio da parte degli attivisti”. Occorre trovarlo quel coraggio, è necessario e inevitabile nel momento in cui la disobbedienza civile viene vista come una follia, mentre il diritto e la politica tacciono.
Maurizio Anelli -ilmegafono.org
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