Potere, comunicazione e informazione. Nell’antichità, tutto sommato, era molto chiaro e definito: appartenevano alle classi sociali superiori e nulla poteva scalfire questa posizione di élite. Non importa che fossero colti e raffinati o semplici tiranni, erano la classe dominante: la scrittura delle leggi era al servizio della Chiesa e delle monarchie e, con esse, si stabilivano le gerarchie e i rapporti sociali. La storia ci racconta che il controllo dell’informazione è fondamentale per il potere. Nel rapporto fra il potere – politico, economico e finanziario – e il controllo dell’informazione si gioca gran parte della partita fra la democrazia e l’autoritarismo. Nel nostro Paese è una storia vecchia che, durante il ventennio fascista, ha raggiunto il punto più alto, ma non è mai stata rimossa completamente, nemmeno nella stagione repubblicana. Ogni momento della vita politica di questo Paese è stato fortemente condizionato dai grandi gruppi editoriali, amici del potere e detentori del monopolio dell’informazione.
Quando si parla di informazione si parla inevitabilmente dei grandi quotidiani e del potere, con il tempo diventato sempre più ampio, dell’informazione televisiva. A tutto questo si aggiunge la rete che, nel corso degli anni, ha visto aumentare vertiginosamente la propria influenza. Il possesso e il controllo dell’informazione consentono di decidere cosa si vuole divulgare e cosa nascondere, condizionando la società e la vita politica e sociale di un intero Paese. Nel nostro Paese il rapporto fra “potere e informazione” ha raggiunto livelli preoccupanti, ma non da oggi. Il confine fra il controllo pubblico e il controllo privato sull’informazione è ormai quasi inesistente e la partita che si sta giocando sulla televisione pubblica, la RAI, è solo l’ennesimo capitolo di un libro dove troppe pagine presentano una macchia sulla libera informazione. La legge 103 del 14 aprile 1975 sanciva il passaggio del controllo della RAI dal governo al parlamento, con l’obiettivo di garantire i principi fondamentali di indipendenza del servizio stesso.
A garantire questa indipendenza doveva essere la Commissione parlamentare di vigilanza e, nelle stagioni immediatamente successive alla riforma, qualcosa era effettivamente cambiato anche grazie alla professionalità e al coraggio di persone libere e indipendenti. Tutto questo è stato progressivamente svilito nel tempo e l’informazione pubblica è tornata ad essere la roccaforte del “potere”, dove ogni governo ha imposto le sue guardie sulle torri del castello. La spartizione della RAI fra i partiti di governo e l’opposizione, un principio di per sé viziato e discutibile ma che in qualche modo consentiva una pluralità di voci, torna ad essere un’esclusiva del governo. Forse qualcuno ha dimenticato che il controllo formale cui era sottoposta la stampa nei primi anni del regime fascista si trasformò dopo poco tempo nelle leggi del biennio 1925-1926, che imponevano che il direttore di ogni giornale dovesse essere iscritto al partito fascista e che, sempre quelle leggi, istituirono l’Ordine dei Giornalisti, che ammetteva solamente iscritti al partito fascista.
Quello stesso Ordine dei Giornalisti esiste ancora oggi e mostra ampiamente tutti i suoi limiti e la sua “benevola tolleranza” nei confronti di chi, violando quotidianamente dalle colonne dei propri giornali ogni codice deontologico, offende e umilia il senso della professione del “giornalista”. In seguito, il regime fascista istituì il ministero della Cultura Popolare – il MinCulPop – allo scopo di controllare cosa veniva pubblicato e censurare tutto quello che era sgradito al regime. Sorprende, oggi, lo stupore di tanti di fronte alle manovre di un governo fascista e razzista che muove i suoi alfieri sullo scacchiere della RAI. Quegli alfieri appartengono ad un mondo che cammina dalla parte destra della strada: inutile fare nomi perché li conosciamo tutti, le future nomine porteranno ai vertici dell’informazione pubblica molti “professionisti della destra”, perché questo governo e questo parlamento non si lasceranno scappare questa occasione.
Il potere, da sempre, usa il bavaglio sull’informazione e sul libero pensiero. Come abbiamo visto con il caso Carlo Rovelli, fisico, divulgatore scientifico conosciuto e stimato in tutto il mondo. Il suo intervento in occasione del Primo Maggio, un intervento critico, lucido e ineccepibile, ha scatenato una pioggia di critiche e polemiche da parte del governo e di gran parte dell’informazione. Merita attenzione anche un altro aspetto che sembra passare in silenzio: l’attacco rivolto ai direttori stranieri di musei e teatri. “Prima gli italiani”, lo slogan sempre caro alla destra nazionalista, entra anche nelle linee guida del ministero della Cultura, guidato da Gennaro Sangiuliano, pronto a varare il bando per assegnare gli incarichi dei nostri musei con una precisa discriminante: la richiesta di una conoscenza perfetta della lingua italiana, dimostrata da certificati riconosciuti a livello internazionale. Informazione, comunicazione e cultura: territori da colonizzare totalmente.
Il punto, allora, è un altro e coinvolge tutto quel mondo dell’informazione dove in molti dovrebbero guardarsi allo specchio: per esempio, quei giornalisti e quegli editori da sempre compiacenti e servili verso ogni potere, incapaci – per scelta e per convenienza – di onorare una professione che richiede passione, ricerca, voglia di capire e raccontare, lontano dai giochi di potere e di partito, dai condizionamenti che poteri e partiti impongono. Il punto, davvero grave, non è Fabio Fazio che lascia la RAI. Non è nemmeno il tweet con cui Matteo Salvini sbeffeggia lo stesso Fazio. Il punto è la prova di forza di un governo fascista che si prende ogni torre di controllo della società: l’informazione pubblica piuttosto che la Commissione antimafia dove, per la nomina del nuovo presidente, il nome vincente sarà quello di Chiara Colosimo, deputata di Fratelli d’Italia e da sempre in ottimi rapporti con Luigi Ciavardini – terrorista di estrema destra condannato definitivamente per la strage di Bologna del 2 agosto 1980 e per l’omicidio del poliziotto Francesco Evangelista e del giudice Mario Amato.
Dal controllo dell’informazione alla propaganda il passo è breve. Il potere da sempre mette il bavaglio al pensiero e al coraggio della parola, il governo di Giorgia Meloni mostra i muscoli in perfetta coerenza con quel pensiero autoritario e reazionario che è il collante della sua coalizione di governo. Controllare l’informazione, la cultura, la scuola, significa tacere e silenziare ogni dissenso, ogni protesta. Significa creare le condizioni perché si sappia e si conosca solo quello che serve al potere politico e sociale. Allora occorre interrogarsi sulla capacità di opporsi a quel pensiero e sulla necessità di creare una contro-informazione libera e indipendente. Esiste questa capacità e, soprattutto, esiste una reale volontà di costruirla? Questa domanda aspetta una risposta da molto tempo, la aspetta la parte migliore di questo Paese. Ma aspettare un treno che non passa, e quando passa è sempre in ritardo, è logorante.
Troppe cose sono passate sotto silenzio in questi anni, non solo adesso. Pochi giornalisti e pochissimi intellettuali hanno avuto il coraggio e la dignità, umana e professionale, di fare veramente informazione. Troppi di loro hanno scelto i salotti e le facili comparsate, lasciando il difficile compito ad altri che sono stati avversati in ogni modo, quando non isolati professionalmente. In questo Paese ogni virgola di democrazia è a rischio, possiamo dire anzi che lo è da sempre, perché non siamo mai stati capaci, per scelta e per volontà, di fare i conti con il ventennio fascista. Quel ventennio è rimasto sottotraccia lavorando nella penombra. Ora, semplicemente, esce allo scoperto con tutta la sua arroganza.
Maurizio Anelli -ilmegafono.org
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