Il 2 ottobre il Brasile torna alle urne per scegliere il suo presidente: sembra che sia passato un secolo, e non quattro anni, dalle elezioni precedenti. Quello del 2018 era un Brasile scosso dalle inchieste giudiziarie che avevano demolito i partiti al potere (il Partito dei Lavoratori di Lula e l’eterno blocco centrista del PMDB/MDB) e che si affidava a un capitano dell’esercito in congedo, con una vasta esperienza da parlamentare: Jair Messias Bolsonaro. Quelle elezioni erano state fortemente influenzate dalla decisione di incarcerare e privare dei diritti politici Luiz Inácio da Silva Lula, che all’epoca era dato come sicuro vincitore. Il resto della storia è noto. Sérgio Moro, il giudice alla guida della mega-inchiesta Lava Jato, che aveva inquisito Lula, è diventato ministro della Giustizia di Bolsonaro; soprattutto, il Tribunale Supremo Federale ha annullato le condanne contro Lula, tornato libero.
Rispetto al 2018, ciò che più è destinata a cambiare le cose è la pandemia, che ha colpito il Brasile con forza, non solo per cause naturali ma anche perché il presidente Bolsonaro si è comportato da “untore”: boicottando con tutte le sue forze il distanziamento e le altre misure di prevenzione, pubblicizzando improbabili farmaci miracolosi e, addirittura, organizzando raduni di folla nei momenti peggiori. Come Donald Trump, come il Boris Johnson dei primi tempi. Di quella triade di negazionisti del Covid-19, Bolsonaro è l’unico rimasto al potere: almeno per ora, perché ha deluso il suo elettorato non portando a termine le riforme (in realtà controriforme) promesse, rimaste impantanate, sacrificate a una propaganda quotidiana che ha raccontato ai brasiliani un mondo inesistente.
Molte parole e pochi fatti, si potrebbe dire. Ma non è stato proprio così: durante il mandato di Bolsonaro qualcosa è accaduto. Sono state smantellate le agenzie che si occupano di monitorare l’Amazzonia, bruciata come mai nella storia; sono stati assediati i territori indigeni; si sono incentivati i coltivatori di soia perché aumentassero la loro capacità produttiva; sono state boicottate le reti e i mercati comuni regionali; è aumentata la dipendenza del Paese dal cliente cinese; e il Brasile è stato portato fuori dal gruppo di Paesi che contano: i due leader con i quali Bolsonaro ha avuto più contatti sono stati Donald Trump e Vladimir Putin.
La ferita più grande è stata, però, quella inferta alla democrazia. E anche qui in modo simile a quanto successo con il trumpismo. Svalutate le istituzioni, messi in dubbio i meccanismi democratici (addirittura quello elettorale), demolita l’idea che attraverso la democrazia sia possibile cambiare le cose. Oltre all’elogio della forza maschile e dell’uso delle armi, come da copione sovranista.
Anche questa volta il candidato in testa ai sondaggi è Lula, che a differenza di quattro anni fa potrà presentarsi. Il Brasile di Lula è in parte un ricordo, piacevole, del passato: il ricordo di un Paese che, cavalcando con destrezza il momento d’oro delle commodities, era riuscito da una parte a combattere davvero la povertà e dall’altra a diventare un player mondiale ascoltato e rispettato. Oggi non ci sono le condizioni per una ripetizione di questo exploit. Ci sono però quelle per un rilancio del multilateralismo, infranto da pandemie e guerre: il mondo ha bisogno del Brasile e viceversa. Il voto del 2 ottobre, da questo punto di vista, è uno spartiacque tra un Brasile che vuole tornare a crescere, anche socialmente, e un Brasile ancorato al sovranismo, maschilista, classista e violento, che non è mai scomparso.
Alfredo Luis Somoza -ilmegafono.org
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