Com’era prevedibile, il conflitto ucraino si è sdoppiato. Da un lato, pur servendo anche per testare nuove armi, ha assunto i caratteri di un conflitto novecentesco, talvolta addirittura di trincea, nel quale l’elemento umano è importante tanto quanto quello tecnologico. Dall’altro, è a tutti gli effetti un conflitto dei tempi della globalizzazione, nel quale vengono usate come armi le materie prime, l’energia, i legami economici e le alleanze geopolitiche, con contorno di fake news che sono la continuazione della guerra in corso. Il punto è riuscire a interpretare l’interazione tra queste due modalità, così da capire il reale andamento del conflitto.
Al momento, per l’Europa si sono rivelati più pesanti l’aumento del costo dell’energia e le difficoltà di approvvigionamento di fertilizzanti agricoli che la fuga degli ucraini: si pensava si sarebbero rovesciati sull’Unione Europea a decine di milioni, invece i profughi ucraini, numerosi soprattutto nella prima fase del conflitto, sono stati assorbiti senza grossi problemi e non si prospettano altri arrivi massicci. L’arma in assoluto più efficace nelle mani della Russia di Putin è stata finora il metano. Grazie ai gasdotti Mosca ha potuto finanziare il proprio sforzo bellico senza collassare, grazie ai prezzi cresciuti esponenzialmente e ai pagamenti puntuali da parte della stessa Europa che sta rifornendo gli ucraini di armi moderne. Nei primi sei mesi del conflitto i paesi UE hanno versato alla Russia 85 miliardi di euro a saldo della fattura energetica. Il 70% della spesa bellica russa secondo fonti autorevoli.
Ora da parte russa arriva la minaccia di una sospensione totale del rifornimento di gas. La svolta può indicare due cose: o che il conflitto sta andando molto male per Putin, ridotto a usare un’arma estrema (e a doppio taglio) per far sì che all’Ucraina venga meno il sostegno europeo; oppure l’esatto contrario, e cioè che la Russia, diversificando il suo parco clienti e guardando soprattutto a Cina e India, si sarebbe messa nelle condizioni di poter minacciare il blocco all’Europa senza pagarne le conseguenze. Gli esperti propendono per la prima ipotesi, essendo innegabile che, dopo 7 mesi di conflitto, le armate di Mosca non sono riuscite a mettere in sicurezza nemmeno le due province del Donbass, obiettivo primario dell’invasione, e men che meno sono riuscite a piegare l’esercito o il popolo ucraino. Perché, alla fine, un conflitto viene deciso dalle armi. E le azioni sul campo, per quanto “novecentesche”, restano quelle dirimenti, anche se da noi si dibatte solo della sicurezza delle centrali nucleari e del mercato energetico, mentre dell’aspetto puramente militare della guerra non si parla quasi più.
Dissipate le polemiche, spenti i riflettori orientati dalle centrali della disinformazione, conterà vedere se, sul campo, la Russia sarà stata in grado di strappare o no un pezzo di territorio a uno Stato sulla carta molto più debole militarmente. Su questo verrà giudicato nel suo paese Vladimir Putin. Conterà solo se su quel pezzo di Ucraina sventolerà la bandiera gialloblu di Kiev oppure quella rossa blu e bianca di Mosca. Tutto il resto scomparirà. O quasi, perché a noi resterà l’ennesimo avvertimento sul fatto che la transizione energetica è urgente per motivi non solo ambientali ma anche strategici, e che la globalizzazione va rivista, tornando a tutelare i settori strategici e accorciando le filiere. Lezione che però avremmo già dovuto imparare dalla pandemia. Davanti al concentrato di eventi epocali che negli ultimi tre anni hanno colpito il mondo, una sola cosa non si può fare: tirare a campare.
Alfredo Luis Somoza -ilmegafono.org
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