“La presenza è potenza!”. È quello che si ascolta in un’intercettazione del Ros (Raggruppamento Operativo Speciale) dei Carabinieri durante indagini accurate sulla mafia agrigentina. A pronunciare la frase un boss di mafia. Storicamente Palermo è sempre stata sotto i riflettori, tanto da far pensare, a molti, che fosse la città di mafia per eccellenza e che tutto partisse da quel luogo, da quella capitale; sembrava che Palermo tenesse sotto scacco, in una morsa velenosa, tutta l’isola. Sembrava, appunto. Ma in verità altre famiglie mafiose, criminalmente potenti, hanno prosperato in tutte le province dell’isola, e la provincia di Agrigento è stata ed è ad altissima densità criminale.
Recentemente, è stata presentata al Parlamento una relazione della Direzione Investigativa Antimafia relativa al primo semestre del 2021.
“Nella provincia di Agrigento è ormai assodata la presenza di cosa nostra e della stidda. Si tratta di due realtà mafiose distinte e entrambe storicamente radicate nel territorio, che hanno raggiunto un livello di convivenza finalizzato alla risoluzione di problematiche comuni, nonché alla individuazione e alla spartizione delle attività criminali da perpetrare sul territorio di competenza. In alcuni comuni della provincia girgentina inoltre risulterebbero essere attivi gruppi su base familiare quali le famigghiedde (a Favara) e i paracchi (a Palma di Montechiaro) che agiscono secondo le tipiche logiche mafiose non contrapponendosi a cosa nostra e alle consorterie stiddare e addirittura agendo spesso d’intesa con le stesse o in ruoli di cooperazione ovvero subalternità”. (leggi qui)
La struttura di cosa nostra agrigentina è suddivisa in sette mandamenti, nel cui ambito opererebbero 42 famiglie; le città più “importanti” sarebbero quelle di Canicattì, Favara, Licata, Palma di Montechiaro e Campobello di Licata. Cosa nostra e stidda, pur operando in modo autonomo, hanno raggiunto, come si evince dalla relazione, dei livelli di coabitazione tali da risolvere insieme delle problematiche comuni e spartire i proventi derivanti dalle attività criminali. Cosa nostra, al momento, mantiene, comunque, un ruolo di supremazia, attraverso un’organizzazione strutturata in maniera verticistica da sempre ancorata alle tradizionali regole mafiose e in stretta connessione con le omologhe articolazioni mafiose catanesi, nissene, palermitane e trapanesi. Non disdegna di intrattenere rapporti anche con realtà criminali “oltre lo Stretto”.
Da quanto emerso dall’indagine, il mandamento di Canicattì risulterebbe essersi assicurato “il controllo e lo sfruttamento del lucrosissimo settore commerciale delle transazioni per la vendita di uva e di altri prodotti ortofrutticoli da parte degli imprenditori operanti in provincia di Agrigento. Chiaro il duplice obiettivo così perseguito: quello di accaparrarsi ingenti somme di denaro destinate ad implementare le casse dell’associazione senza ricorrere ad attività (quali ad esempio il traffico di sostanze stupefacenti) ben più rischiose sotto il profilo giudiziario e quello parimenti vitale di presidiare (anche militarmente) il principale ambito commerciale ed economico dei territori ricadenti nella provincia agrigentina, provincia dal punto di vista economico ancora saldamente legata al mercato agroalimentare quale fonte quasi unica ed esclusiva della ricchezza di quella terra”.
Questo aspetto “offre rinnovata conferma del ruolo fondamentale rivestito delle cosche agrigentine nelle dinamiche dell’intera cosa nostra isolana. È stata riscontrata infatti “una eccezionale ed ininterrotta sequenza di riunioni” svoltesi nel territorio agrigentino nell’arco di circa due anni, “intrattenute tra esponenti di vertice di cosa nostra, anche appartenenti a province diverse”. Convention mafiose che hanno consentito di “fotografare con lampante evidenza la perdurante unicità dell’intera associazione mafiosa” che, nonostante le continue attività repressive susseguitesi nel tempo e le numerose conseguenti condanne inflitte agli appartenenti, risulterebbe “avere mantenuto integra la sua sotterranea capacità di collegamento tra le diverse articolazioni territoriali”.
Ma quali sono i sette mandamenti della provincia agrigentina emersi nella relazione? Quali i nomi presenti nell’inchiesta dei carabinieri? Quali i loro affari? La provincia è divisa nei mandamenti di Burgio, Santa Elisabetta, del Belice, di Cianciana, Canicattì, Agrigento e Palma di Montechiaro. Nell’inchiesta sono emersi i nomi del canicattinese Calogero Di Caro e di molti suoi affiliati, appartenenti a famiglie mafiose, spesso imparentate tra di loro. Accanto al nome di Di Caro anche quello di Giancarlo Buggea, rappresentante a Canicattì del clan Falsone, quello di Luigi Boncori (Ravanusa), di Giuseppe Sicilia (Favara), di Giovanni Lauria (Licata), di Simone Castello e Antonino Chiazza.
Alla fine della relazione sulla provincia di Agrigento si legge: “Negli ultimi anni poi si evidenzierebbe sempre più una sorta di “emigrazione criminale” della mafia agrigentina favorita dalla volontà di alcuni soggetti di trasferire i propri interessi illeciti laddove il fenomeno mafioso risulta ancora occulto. I reati cardine sui quali si impernia l’azione mafiosa sono sempre i medesimi”. “Nella quasi totalità delle attività investigative poste in essere – continua la relazione – emergono eventi estorsivi che rappresentano alla pari del traffico di sostanze di stupefacenti una fonte primaria di sostentamento oltreché un importante strumento di controllo del territorio. Al riguardo, la stessa operazione ‘Xydy’ ha messo in luce il c.d. fenomeno della ‘messa a posto’ così come evidenziato in un passaggio del relativo provvedimento: nel corso della riunione si discuteva della ‘cassa’ comune del mandamento mafioso ove giungevano i proventi delle estorsioni da destinare al sostentamento dei sodali detenuti”.
Sebbene nel semestre non si evidenziano riscontri operativi riguardanti il settore del controllo del gioco d’azzardo, esso attira oramai da anni l’attenzione e l’interesse delle consorterie. La provincia di Agrigento, che nella sua storia passata ha assistito alla morte del maresciallo Guazzelli, del giudice Antonino Saetta e del figlio Stefano e del giudice Rosario Livatino è stata protagonista nella storia della mafia, a partire già dal 1861, quando si comincia, velatamente, a parlare di mafia, anche in letteratura. Memorabile il passo del romanzo “I vecchi e i giovani” di Luigi Pirandello, in cui donna Caterina dice: “Qua c’è la fame, caro signore, nelle campagne e nelle zolfare; i latifondi, la tirannia feudale dei cosiddetti ‘cappelli’, le tasse comunali che succhiano l’ultimo sangue a gente che non ha neanche da comperarsi il pane!”. Una storia vecchia più di un secolo in un Paese, il nostro, che la mafia, ancora, non l’ha sconfitta.
Una città, Agrigento, che domina dai suoi templi, un territorio che non può morire strangolato dalle mafie, una città che il poeta Pindaro invocava così: “Te invoco, città di Persèfone, città la più bella fra quante albergo son d’uomini, o amica del fasto, che presso Agrigento ferace di greggi, ti levi su clivo turrito”.
Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org
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