“Io vedo tutto, questo è il mio problema. L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede. Certe volte, le persone pagano con la vita il fatto di dire ad alta voce ciò che pensano. I giornalisti non sfidano l’ordine costituito, descrivono soltanto ciò di cui sono testimoni. È il loro dovere, così come è dovere del medico curare un ammalato ”. (Anna Stepanovna Politkovskaja)
Il dovere, il senso del dovere. Questo si aspettano le persone e questo è quello che si chiede ai medici, ai giornalisti e a chiunque si pensa che debba salvare una vita o raccontare tutto quello che vede. Poi, troppe persone dimenticano in fretta chi ha salvato una vita o chi l’ha persa perché ha scritto e raccontato tutto quello che ha visto. Questo mondo è un libro tutto da raccontare e le pagine più inquietanti, quelle che in pochi hanno il coraggio di svelare e in troppi non vogliono conoscere, vengono nascoste o relegate nei titoli di coda. Nel tritacarne del quotidiano si dimentica in fretta e ci si illude che questo serva per andare avanti. Ci si abitua a tutto, anche alle guerre e in particolare a quelle dimenticate. Perché questo mondo è pieno di guerre, così pieno che si fa fatica a ricordarle tutte.
Shireen Abu Akleh aveva 51 anni, e da più di venti lavorava per Al Jazeera. Figlia di una famiglia araba cristiana palestinese di Betlemme, era nata a Gerusalemme nel 1971. Alla passione per l’architettura preferì il giornalismo e, per quella scelta e dopo la laurea, aveva deciso di tornare in Palestina per dare voce al bisogno di quel popolo e di quella terra di essere raccontati per non essere dimenticati. Nell’autunno scorso scriveva così: “Per me Jenin non è una storia effimera nella mia carriera o persino nella mia vita personale. È la città che può sollevarmi il morale e aiutarmi a volare. Incarna lo spirito palestinese che talvolta trema e crolla e poi, oltre ogni immaginazione, si rialza per seguire le sue traiettorie e i suoi sogni”. L’11 maggio scorso stava documentando l’intervento dei militari israeliani nel campo profughi di Jenin e, in quel campo, il suo racconto finiva insieme a lei. Uccisa, con un colpo alla testa. La pettorina con in vista la scritta “PRESS” non è bastata a salvarla.
Il governo di Israele si è affrettato a negare ogni responsabilità sulla sua morte, ma la sua morte è identica a quella di Yaser Murtaja, giornalista e fotografo palestinese di 30 anni, ucciso dall’esercito israeliano nella striscia di Gaza. Anche lui indossava la pettorina con la scritta “PRESS”, anche lui stava documentando e raccontando quello che vedeva. Era il mese di aprile del 2018. La morte di Shireen Abu Akleh non bastava, e il 13 maggio a Gerusalemme, nel giorno del suo funerale, la violenza si è rovesciata anche su chi portava sulle spalle la bara con il suo corpo e la sua storia. Le immagini di quella violenza, specchio dell’occupazione violenta e umiliante vissuta ogni giorno dalla popolazione palestinese, hanno fatto il giro del mondo. Questo è accaduto e questo il mondo ha visto (clicca qui).
Qualcuno racconta il mondo in tutte le sue oscenità. Reporter di guerra e coscienze libere, anche dove le guerre non sono dichiarate ma nascoste sottotraccia, tante volte combattute a livello locale e poi, solo nel momento finale, divenute note in tutta la loro violenza. Impossibile non ricordare Daphne Caruana Galizia. Da anni lottava contro la corruzione dilagante a Malta, documentava e denunciava il marcio che aveva trasformato quell’isola del Mediterraneo in un grande e potente paradiso fiscale. Per anni, ogni giorno e nell’indifferenza della Comunità internazionale, ha gridato il suo allarme raccontando quello che si doveva tacere. Poi, in un giorno di ottobre del 2017 la sua auto è saltata in aria insieme a lei. I giornalisti scomodi e coraggiosi muoiono così: con la complicità, i silenzi e l’indifferenza delle istituzioni e degli Stati.
Questo vale ad ogni latitudine, nessun confine è amico della stampa libera: da anni il Messico è considerato come il luogo più pericoloso in assoluto per i giornalisti, e i dati raccolti dall’organizzazione “Artículo 19” che si batte per la libertà di stampa ci dicono che, dal 2000 ai primi mesi del 2022, i giornalisti uccisi sono oltre centocinquanta. La libertà di stampa è un bene prezioso e fondamentale per ogni democrazia, ma perché possa esistere e vivere è necessario credere in questo valore: non può essere costruita sulla pelle di chi poi viene ricordato come “eroe” in celebrazioni dove la retorica delle istituzioni sale su un palco. L’informazione concentrata nelle mani di pochi ma potenti gruppi editoriali è il primo grande ostacolo a questa libertà. E questa concentrazione esiste ovunque, anche in Italia.
Il World Press Freedom Index di Reporters Sans Frontières (RSF), che ogni anno esamina lo stato del giornalismo e della libertà di stampa in 180 Paesi, è giustamente critico nei confronti del nostro Paese, dove è sempre più evidente il monopolio editoriale che si è creato e rafforzato, a danno del giornalismo indipendente, libero dai lacci della politica. Aumenta il numero dei giornalisti sotto scorta, da Paolo Berizzi a Sigfrido Ranucci di Report, l’ultimo in ordine di tempo. Esiste poi quel mondo, sconosciuto ai più, composto dai giornalisti locali il cui nome non compare nei salotti televisivi. Sono donne e uomini che vivono, lavorano e raccontano le storie delle periferie, quelle di cui si trova traccia solo nelle pagine che quasi nessuno guarda. Poi, un giorno qualunque, i loro nomi finiscono nel mirino di chi costruisce la propria ricchezza sui traffici illeciti che muovono le gambe dell’economia delle città.
“Io vedo tutto, questo è il mio problema. L’unico dovere di un giornalista è scrivere quello che vede”. È così, è amaro certo, ma è così. E quel dovere diventa una necessità interiore, come quel bicchiere di acqua fresca di cui non si può fare a meno, perché tutto quello che riesce a smuovere una coscienza diventa un bicchiere d’acqua fresca, capace di dissetare un pensiero, un sogno. Il World Press Freedom Index di Reporters Sans Frontières deve continuare a fare le sue analisi, e forse un giorno quelle analisi potranno aiutare questo Paese a ricordare che la parola “giornalista” non è il compiacente salotto televisivo in prima serata, non è nemmeno il telegiornale che racconta il mondo come gli viene chiesto di raccontare.
Un giorno, forse, questo Paese ricorderà che la parola “giornalista” ha un valore che oggi tanti hanno dimenticato. È una parola che stringe la mano di chi ha saputo raccontare quello che ha visto, e che per questo ha pagato un prezzo assoluto. Penso alla mano di Pippo Fava e di Ilaria Alpi, alla macchina da scrivere di Giancarlo Siani, cui solamente troppi anni dopo il suo assassinio è stata data la tessera di giornalista, penso ai tanti sconosciuti di periferia che raccontano quella vita che nessuno conosce. Poi passo il confine e penso all’auto saltata in aria di Daphne Caruana Galizia, al coraggio di Anna Stepanovna Politkovskaja. L’ultima mano è quella di Shireen Abu Akleh, che raccontava la terra e il popolo di Palestina. Penso a lei, uccisa a Jenin, la città capace di insegnare a volare e di incarnare quello spirito palestinese che talvolta trema e crolla e poi si rialza per seguire le sue traiettorie e i suoi sogni.
Maurizio Anelli -ilmegafono.org
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