“Minchia! Talè, c’è ‘a signorina. ‘A viristi ‘a signorina là?’. Magari tu vai a trovare ‘u patri o ‘u frati.. Hai visto ‘a signorina? Minchia, sinni iu là dà ‘rreri, tutto che s’annacava, tutto…” (traduzione: Minchia! Guarda, c’è la signorina. L’hai vista la signorina? Magari vai a trovare il padre o il fratello. Hai visto la signorina? Minchia, è andato lì dietro tutto che ancheggiava, tutto…). È la descrizione che un mafioso fa di un omosessuale appartenente ad una famiglia di mafia, il cui padre e il fratello sono affiliati di cosa nostra. Che cosa nostra o altre organizzazioni criminali siano omofobe e maschiliste non sarebbe una sorpresa. È cosa prevedibile e scontata. Gli studi sulla psicologia del fenomeno mafioso hanno sin ora consentito di evidenziare la fragilità identitaria degli appartenenti alle organizzazioni criminali mafiose e l’impossibilità a concepire la diversità in qualunque forma essa si presenti.
L’omosessualità in particolare rappresenta in questi contesti la paura terrificante dell’alterità e il terrore di perdere il controllo della rigidità impenetrabile che fonda l’identità mafiosa. Un articolo del maggio 2012, pubblicato in “Narrare i gruppi” da Cecilia Giordano e Maria Di Blasi dell’Università di Palermo, dal titolo “Identità e omofobia in Cosa Nostra: un contributo gruppoanalitico oggettuale”, attraverso l’utilizzo di frammenti di interviste a collaboratori di giustizia mette in luce come in realtà ciò di cui l’uomo di mafia radicalmente diffida e che allontana è l’esperienza essenziale della possessione erotica (non importa se etero o omosessuale). Le autrici dello studio scrivono: “Ogni relazione che, come quella amorosa, richieda capacità di smarrimento di sé nell’incontro con l’altro/a, atterrisce l’uomo di mafia che reagisce a questa minaccia di possessione con le più primitive armi di difesa: la sottomissione e l’annientamento”.
Giordano e Di Blasi guardano all’omofobia da una prospettiva teorica, quella gruppoanalitico soggettuale, che integra sia gli aspetti emotivi che gli aspetti cognitivi e socio-culturali. Ma cos’è la gruppoanalisi oggettuale? Si tratta dell’evoluzione del modello gruppoanalitico anglosassone che trova in S. Foulkes il suo pioniere. Individuando nella relazione la struttura della psiche, l’individuo non viene più analizzato solo scavando sulle sue pulsioni e fantasmi interni, non più come “unità semplice” bensì come punto nodale attraversato da una rete di rapporti inconsci. Proprio per rendere conto di quest’attraversamento, Foulkes introduce il concetto di transpersonale. Transpersonale che sta ad indicare quelle aree della realtà psichica che si estendono oltre l’identificazione con la personalità individuale.
Giordano e Di Blasi partono da questa base teorica per il loro studio e per le interviste a uomini affiliati a cosa nostra, i quali decidono, per varie motivazioni, di “collaborare” con la giustizia. Gli “uomini d’onore”, sostanzialmente, sono come macchine per uccidere, senza paure e desideri. La paura e il desiderio devono essere temuti e allontanati. Paura e desiderio sono, per i mafiosi, fonte di fragilità. Da questo punto di vista, la mafia è paragonabile, nel suo funzionamento, ad un sistema “fondamentalista”, nel senso che al suo interno l’individuo non sviluppa autonomia psichica, ma prevale senso di appartenenza e di assoggettamento al gruppo, che fonda, in tal modo, un’identità rigida e totalizzante. Basta leggere quello che risulta dai colloqui: “Al di là della scopata… per farsi vedere uomini, non c’è altro… è vero! Hanno una sessualità repressa. Loro non ne parlano mai di sesso, a parte il rapporto che poi è pure sporadico, ma spo-ra-di-co (!), perché io li vedevo con ragazze giovani (…)”.
I mafiosi, come indica G. Lo Verso, non fanno l’amore, non considerano il sesso come coinvolgimento di sensi ed emozioni; “Gli uomini d’onore ‘scopano’ con la morte, con il denaro, con il potere”. Sempre Lo Verso, nel 1998, parla di mafia e psicopatologia utilizzando la metafora del patto con il diavolo che il mafioso stringe con cosa nostra: “Tu mi darai identità, sicurezza, potere, grandiosità, ma in cambio io non penserò, ti darò la mia anima, la mia psiche, la mia obbedienza a priori: la mia vita in sostanza”. Usare immagini sacre, macchiare di sangue le immaginette, serve a suggellare questo patto da cui non potrai più venir fuori. Almeno da vivo.
E l’omosessualità? Come viene vista e vissuta? Dalle interviste emerge chiaramente e in modo netto che viene vista come qualcosa “contro natura”, come una malattia, una disgrazia che, come tutte le disgrazie, può colpire qualsiasi famiglia e che bisogna scongiurare ed esorcizzare con preghiere ed esorcismi: “E lo so, lo so, è nà malatia! Una malattia! ‘U Signuri ni scansa ogni figghiu ‘i matri!” (Traduzione: “E lo so, lo so è una malattia! Una malattia! Che il Signore la eviti a ogni figlio di mamma”). Malattia, appunto. Come tale, chi si “ammala” di omosessualità non merita nemmeno di essere sfottuto, perché portatore di disgrazia e vergogna. Questa visione evoca, ascoltando e leggendo le loro dichiarazioni, la paura del contagio, che porta il mafioso ad evitare qualsiasi possibile contatto. L’omosessuale, come il folle, come ogni diverso, non si tocca, non si sfotte, si tiene semplicemente a una distanza di sicurezza relazionale.
Cosa accade se nella famiglia di un mafioso vi è un figlio omosessuale? Bisogna stare zitti, nascondere, far finta di nulla, far finta che questo figlio disgraziato non esista. Gli omosessuali sono ragni, signorine, fro-fro, e le risatine nascoste sono, in realtà, risate isteriche per nascondere il dramma provato, la tragedia. L’omosessualità come Medusa, la figura mitologica greca che aveva il potere di pietrificare chiunque avesse incrociato il suo sguardo, non può essere guardata, genera un terrore profondo e primordiale, come uno specchio essa rivela all’uomo mafioso la verità della propria immagine riflessa: la paura terrificante dell’alterità, la paura di diventare altro da se stesso, il terrore di perdere il controllo della rigidità impenetrabile che fonda l’identità mafiosa, il fondamentalismo dell’organizzazione criminale.
Ne parla anche Roberto Saviano in un’intervista del 2016 rilasciata ad arcigay.it: “In diversi casi l’omofobia ha avuto a che fare con omicidi o fatti di mafia e camorra. Ricordo un affiliato in carcere negli anni ‘90, a Santa Maria Capua Vetere, impiccato perché in cella aveva avuto un rapporto omosessuale con un ragazzo tunisino e il clan, per la vergogna, l’ha fatto fuori. Spesso ci sono pestaggi e minacce a parenti di affiliati ai clan perché omosessuali. La presenza di persone omosessuali sporca l’immagine del clan. Addirittura, durante un processo, un grande boss della camorra provò a screditare le dichiarazioni di un altro boss del centro storico di Napoli dicendo: ‘Signor giudice ma voi date ascolto a questo che ha il figlio ricchione?’ e l’altro, ‘accusato’ di non essere attendibile perché padre di un omosessuale, rispose ‘no, non è vero, non è ricchione, è solo molto sensibile’. Si ha persino paura di pronunciare la parola omosessuale nel mondo della camorra e della mafia”.
Paura ed orrore. Orrore della alterità radicale, il femminile dentro il maschile. Una minaccia disgustosa. La stessa distorsione subisce la donna nella cultura mafiosa, che può essere concepita solo come moglie e madre. In alcuni casi solo come puttana. La sessualità, il corpo, la sensualità della donna sono vissuti dai mafiosi come minaccia al loro potere e quindi, proprio per questo, le donne vanno dominate, sottomesse e se cercano di ribellarsi, annientate. Mi chiedo: quanto c’è nelle menti degli italiani maschi ed eterosessuali, di questa cultura mafiosa?
Vincenzo Lalomia -ilmegafono.org
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