La consolazione è che dal letame possano nascere i fiori. Perché è già successo che quando ci siamo abbassati per toccare il fondo abbiamo avuto la capacità di riconoscerlo e di rialzarci con in testa l’idea giusta per non ripetere l’errore. La storia lo insegna: circolano in questi giorni le parole che ricordano la tragedia del Vermicino, che tenne incollata l’Italia al dolore, in diretta, ma che fece nascere la Protezione Civile, sull’onda della richiesta di non permettere più un simile dramma. Un esempio, questo, nella questa direzione del “mai più”.
Più indicative in questo senso, però, sono le iniziative in ambito giornalistico, cioè quello della diffusione corretta delle notizie, e vanno citate senza dubbio le Carte di Treviso e di Roma: assunte negli anni dalla deontologia giornalistica come faro, nacquero in difesa di bambini, migranti, richiedenti asilo, e nacquero in seguito a fatti di cronaca che avevano visto i giornalisti danneggiare chi già era vittima. Bisogna raccontarne il dramma, si disse, in punta di piedi, rivelando solo ciò che rientra nella verità sostanziale dei fatti. Sostanziale.
Leggere, oggi, le giustificazioni legate a una presunta necessità di mandare in onda le immagini della tragedia della funivia fa quasi più male che osservare quello che è stato mandato in onda e poi diffuso sul web, quasi senza controllo: “Le immagini non lasciano spazio a irricevibili guardonismi”, dicono dalla redazione de “La Stampa” e, sempre a detta di chi ha deciso di diffonderle, sarebbero utili perché chiariscono “come l’intervento dei freni avrebbe potuto impedire il disastro”. Ecco: questo è quell’in più del quale è ragionevole considerare che sia ovvio che l’utente non ha bisogno. È pacifico ritenere che non ci sia alcun necessario arricchimento dell’informazione in ciò che è stato mostrato, che invece riverbera un dolore al quale dovremmo lasciare lo spazio privato di una lacrima.
In questo senso il “Corriere della Sera” ha fatto una scelta condivisibile, limitandosi alla descrizione di quanto avrebbe potuto mostrare parlando di “salto nel vuoto”, espressione che rende benissimo l’idea di un dramma che non necessità di prendere per mano il lettore fino a fargli sporgere la testa sulla notizia. Non serve a nulla se l’intento resta quello di mostrare la realtà sostanziale dei fatti. Se qualche giorno fa le telecamere avessero indugiato sull’agonia di Eriksen non potremmo dire di saperne di più sul dramma che ha vissuto quel calciatore. Abbiamo applaudito, invece, la scelta dei compagni di squadra di schermare con i corpi quanto stava accadendo. E gli applausi venivano anche dalle testate che hanno mandato in onda il dramma della funivia. Un terribile ossimoro figlio della contemporaneità e della sua fame di spettacolo.
Servono nuove regole che schermino il cattivo spettacolo del dolore, così come hanno fatto i compagni di Eriksen. Serve un nuovo scatto d’orgoglio che faccia sollevare il giornalismo italiano da quel fondo che ha nuovamente toccato. Forse è ora, adesso, perché una nuova Carta si erga a proteggere il diritto al dolore di chi non dovrebbe ricevere altri schiaffi.
Seba Ambra -ilmegafono.org
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