È stata recentemente avviata da Greenpeace una petizione per ottenere la conversione di Eni verso energie più pulite, le cosiddette energie “green”, con l’obiettivo di porre un freno all’emergenza climatica. La petizione, sottoscrivibile on-line (clicca qui per firmare), si propone di smascherare quelle che definisce le bugie “dalle zampe corte” di Eni, così da promuovere una diffusa e inedita consapevolezza ambientale nei cittadini italiani, troppo spesso non sufficientemente informati su una tematica tanto delicata ed importante. Il punto focale individuato dal gruppo ambientalista nella comunicazione che accompagna la campagna di adesioni è la necessità di non sottovalutare che Eni è una azienda partecipata dallo Stato e che questo rende, inevitabilmente, tutti gli italiani suoi azionisti, legittimati pertanto a conoscerne il piano di investimenti futuri ma anche ad indirizzarne le scelte produttive.
Il gruppo ambientalista spiega brevemente che Eni, malgrado le promesse, negli ultimi anni ha continuato a destinare solo le briciole alle energie rinnovabili, scegliendo semplicemente di adottare costose e poco efficienti soluzioni tampone. “Al posto di dare un taglio alla CO2 con investimenti green – è possibile leggere nel sito internet dedicato alla promozione della petizione – la compagnia preferisce ‘compensare’ le proprie emissioni, con riforestazione e stoccaggio di CO2: finte soluzioni, pericolose e costose, che non ci portano da nessuna parte”. “Non esistono scorciatoie – conclude il testo – per ‘sembrare più green’, ci vuole un vero cambio di paradigma!”. Un cambiamento non solo auspicabile e non più procrastinabile ma anche in linea con la direzione che il mondo ha iniziato a prendere. Una buona notizia, infatti, arriva dalla recentissima ed innovativa sentenza della Corte d’Appello dell’Aia che ha condannato il colosso Shell per il disastro ambientale e sanitario provocato in Nigeria.
La Corte, accogliendo una causa portata avanti da tre agricoltori del Delta del Niger, che hanno visto i propri terreni divenire sterili e le proprie vasche per l’allevamento dei pesci avvelenarsi a causa dei continui sversamenti di petrolio, ha condannato il gigante petrolifero al risarcimento dei danni ed alla implementazione di efficienti sistemi di sicurezza tali da impedire nuovi eventi inquinanti. Aldilà della concreta fattispecie, la sentenza ha una portata storica ed è un chiaro segnale di un nuovo orientamento, sociale prima ancora che giuridico, molto più attento alla questione ambientale. Eppure il vento del cambiamento sembra soffiare in maniera piuttosto flebile nel nostro Paese. Sebbene, lo scorso 24 febbraio, sia stato prorogato di altri sette mesi lo stop alle trivellazioni in mare, tutte le paure legate all’impatto ambientale dell’estrazione dell’oro nero sono state tutt’altro che fugate.
“Chiediamo alle forze politiche di maggioranza – hanno dichiarato le maggiori associazioni ambientaliste – di dotare quanto prima il nostro Paese di una legge, analoga a quelle approvate in Francia e, recentemente in Danimarca (uno dei maggiori produttori di petrolio della UE) che stabilisca un chiaro termine ultimo, coerente con l’obiettivo europeo del conseguimento della neutralità climatica entro il 2050, di validità delle concessioni per l’estrazione degli idrocarburi e che preveda, di conseguenza, un fermo delle autorizzazioni per le attività di ricerca e prospezione degli idrocarburi”. In una fase storica in cui si parla di transizione ecologica è inaccettabile continuare a negare che il petrolio rappresenti il passato, un passato dannoso e facilmente sostituibile da energie rinnovabili con ingenti guadagni in termini ambientali ed economici.
Anna Serrapelle-il megafono.org
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