Se c’è un tema che è mancato totalmente nella campagna elettorale emiliana è quello della lotta alle mafie. Eppure le mafie in Emilia Romagna ci sono, ben inserite nei traffici illeciti e anche nel tessuto economico. Ci sono boss di ‘ndrangheta e ci sono ‘ndrine di un certo peso radicate nei territori. Ci sono interessi dimostrati di famigerati clan di camorra, ci sono state inchieste importanti e un maxiprocesso (“Aemilia”) che è stato il secondo più grande processo in Italia contro la mafie. C’è stato anche un Comune (Brescello) sciolto per infiltrazioni mafiose. Eppure il tema è scomparso, come se non riguardasse questa parte del Paese, come se tutto fosse finito con il processo “Aemilia”. Così, la narrazione di una campagna elettorale estenuante ha evitato di accendere i riflettori su qualcosa rispetto alla quale la politica da tempo ha scelto di tacere. Per comodità o per impreparazione.
Perché parlare di mafia significa parlare di come essa si sia infilata agevolmente nel sistema economico dei territori, spesso lasciati sotto il controllo dei clan, che impongono la propria presenza e il proprio potere in mille modi, spesso formalmente leciti ma sostanzialmente illeciti e criminali. E allora, l’unico elemento di narrazione è quello vuoto e retorico della sicurezza, con l’ignobile sceneggiata del citofono, dell’accusa infondata nei confronti di un minorenne. L’unico elemento è quel teatro osceno che Salvini ha allestito per parlare di spaccio, di droga, etnicizzando la questione e dimenticando di essere stato ministro dell’Interno fino a pochi mesi fa e di non aver fatto nulla in merito, se non stringere la mano a chi per droga è stato condannato e arrestato davvero, come il capo ultrà del Milan con il quale si fece fotografare sorridente.
Nessuna parola, come sempre, su chi la droga la produce e la traffica, sulle mafie, su quella ‘ndrangheta che non ha mai combattuto e alla quale non ha dedicato nemmeno uno strumento di contrasto efficace nei due decreti sicurezza sfociati in altrettante leggi. Decreti sicurezza che, al contrario, rischiano invece di fare un bel favore alle mafie, un regalo inaspettato, relativamente ai beni confiscati alla criminalità organizzata. Un regalo nocivo, che umilia il sacrificio di chi aveva capito da tempo che la confisca del patrimonio sarebbe stata un mezzo di contrasto fortissimo al potere dei clan. La legge 646/1982, cosiddetta “La Torre-Rognoni”, approvata dopo l’assassinio del segretario regionale ed ex deputato del Pci, Pio La Torre, aveva segnato una svolta. Successivamente, la legge 109/96, fortemente voluta da Libera, ha introdotto il riutilizzo pubblico e sociale dei beni confiscati.
Oggi, con l’articolo 36 del primo decreto sicurezza (convertito nella legge 132/2018), si prevede la vendita ai privati per i beni confiscati dal valore inferiore ai 400mila euro. In questo modo anche le mafie, attraverso società “pulite” e affidate a prestanome, possono riacquistare, con trattativa privata, molti tra i beni confiscati (appartamenti, ville, fondi agricoli, ecc.) e, dopo 5 anni, eventualmente rivenderli. Questa è l’unica azione fatta dall’ex ministro dell’Interno nei confronti della criminalità organizzata. E il bello è che, in risposta all’invito fatto da molti di andare a citofonare a casa di un boss, l’ex ministro ha avuto la faccia tosta di dire che lui ai boss e alle mafie ha confiscato i beni! Nessuno gli ha risposto, nessuno lo ha incalzato su questa contraddizione, così come sul caso Siri, incredibilmente sparito dalle cronache e dall’attenzione mediatica.
Il problema è che anche dall’altra parte, il tema del contrasto alle mafie non viene considerato centrale, non se ne parla, non è oggetto di campagna elettorale, di discussioni approfondite. E questo è un male, in un Paese nel quale le mafie crescono, proliferano, si muovono in tutto il territorio nazionale e si radicano, infilandosi sempre di più nella cosa pubblica, nella macchina amministrativa, come dimostrano le tante inchieste della magistratura sulla collusione tra clan, politica e imprese. Forse è ora che si ritorni a parlare di mafia quotidianamente, non solo al Sud, perché se al Sud c’è stato un radicamento nei territori più lungo è anche vero che il Sud ha sviluppato da tempo degli anticorpi, delle avanguardie di lotta, mentre al nord, dove il problema esiste ma c’è anche una minore presa di coscienza, si rischia di ritrovarsi fragili e permeabili, come il burro davanti a una lama. Una lama infetta.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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