Ci sono storie lunghe da raccontare perché partono da lontano e provare a raccontarle è difficile, a volte persino inutile. Il tempo che viviamo vuole sempre risposte immediate, la pancia prevale sempre sulla ragione e sulla memoria, e voler vedere l’albero dalle radici sembra ai più una stupida perdita di tempo. Eppure ogni ramo di quell’albero è un viaggio nel tempo dove in ogni stazione qualcuno è salito sul treno e qualcun altro è sceso, perché stanco o perché sconfitto, ma a ogni stazione un biglietto è stato pagato.

“La classe operaia va in paradiso”, raccontava un vecchio film capace di guardare il presente di allora e vedere il futuro che sarebbe arrivato, ma il paradiso che ci hanno sempre raccontato da bambini non esiste e la classe operaia non ha mai conosciuto nessun paradiso. La “Classe Operaia” ha conosciuto solo la fatica di conquistare dignità e diritto, un metro alla volta, come la più bella squadra di rugby che gioca la sua partita contro una squadra infinitamente più potente e più forte. E quel metro di dignità ha saputo conquistarlo e ogni metro era un passo in più verso la meta: la squadra più bella contro la squadra più potente e più arrogante, il profumo di un sogno contro l’odore dei soldi e del potere. Il “Potere” ha tante facce, tante maschere dietro cui nascondersi: la camicia bianca ed elegante dei “politicanti”, così lontani dalla Politica con la “P” maiuscola, la faccia complice di una parte dell’informazione e lo sguardo miope di una parte del mondo sindacale che nel tempo ha ceduto quel metro di dignità costato tanta fatica.

E la “Classe Operaia” si è ritrovata cacciata indietro, costretta all’ennesima mischia per difendere ogni metro conquistato in passato. Qualcuno, molti in verità, pensa che quella Classe non esista più e che di lei rimanga solo una vecchia fotografia in bianco e nero ma con tutti i colori del riscatto, della voglia di vivere senza più chinare la testa. Sono passati cinquant’anni dalla stagione delle rivendicazioni e delle grandi lotte operaie nelle fabbriche. Era il 1969 e la classe operaia scrisse nella storia di questo Paese una pagina straordinaria, capace di cambiarne il quadro sociale e politico: l’Autunno Caldo. Una stagione di lotte e di presa di coscienza che portava la classe operaia al centro della scena. Le radici di quell’autunno, di quell’albero che cresceva in Italia e in Europa, s’intrecciavano con le speranze e l’aria di ribellione che soffiava sull’Italia e sull’Europa. Alla FIAT si viveva la prima grande vertenza aziendale dopo tanti anni, a Milano rispondevano gli operai delle grandi fabbriche: Breda, Falck, Ercole Marelli, Magneti Marelli, Philips, Sit Siemens, Innocenti, Alfa Romeo, Borletti. A Genova l’Ansaldo e l’Italsider, e ancora… decine di piccole e grandi aziende in tutta Italia.

Quell’autunno aveva regalato una ventata di dignità e di riscatto a tutto il Paese, da nord a sud. Quanti di questi nomi, oggi, ritroviamo e ricordiamo? Nomi scomparsi in gran parte, solo FIAT è ancora al suo posto: cambiata, diversa nei numeri e nella sostanza, ma capace sempre di condizionare e di riscrivere i rapporti di forza. Nell’estate del 2010, a Pomigliano, FIAT riscrisse definitivamente i rapporti fra aziende e sindacati: in cambio di promesse di investimenti per l’occupazione, si impose l’aumento dei turni e dei ritmi di lavoro, la riduzione delle assenze per malattia, il congelamento del conflitto. A Pomigliano venne siglato un accordo separato, senza e contro la maggioranza dei lavoratori. Da quel giorno cambiarono tutti i rapporti di forza. Quei metri conquistati con tanta fatica sono stati restituiti in gran parte ai padroni di sempre. Quella “Classe Operaia” è stata dimenticata e rottamata, sconfitta, abbandonata al proprio destino anche da chi non te lo aspettavi. Quante figure hanno cavalcato prima e abbandonato poi il mondo del lavoro, costruendo compromessi sui castelli di carta e cedendo progressivamente diritti e conquiste.

“La classe operaia va in paradiso” e ci va ogni giorno perché ogni giorno si muore sul lavoro e per il lavoro, ma io non credo al paradiso, non esiste nessun paradiso perché se esistesse non riuscirebbe a raccogliere tutti i morti per il lavoro, e il padrone di casa dovrebbe allargare le stanze e i posti a tavola. La classe operaia invece esiste ancora, solo che in troppi non la vogliono più riconoscere. Ha la faccia diversa da quella che riempiva le piazze nell’autunno del 1969, ha ancora la tuta blu con il marchio di fabbrica stampato sul petto, ma oggi la riconosci anche da altri segnali: ha gli occhi persi dei braccianti che lavorano e muoiono nei campi guardati a vista dai caporali, ha la faccia di chi subisce la legge dei mille contratti di lavoro che offrono un lavoro per un giorno, per una settimana, per un mese. Ha la faccia di chi pedala su una bicicletta di notte, per portare una pizza ancora calda a casa di chi la ordina per telefono. Ha la faccia di chi un lavoro non lo trova oggi e non lo troverà domani. Ha la faccia di chi subisce ogni giorno il ricatto peggiore: morire di fame o morire di lavoro.

La città di Taranto conosce questo ricatto da sempre, lì si tocca con mano il punto più alto della lotta di classe, oppure il punto di non ritorno. Perché quella fabbrica uccide due volte: prima uccide chi ci lavora per portare a casa una busta paga che serve per vivere, pagare un mutuo, mantenere una famiglia. Poi, uccide una città e la sua gente. Uccide un giorno alla volta con i suoi veleni che entrano ovunque: nell’acqua e nell’aria, nei polmoni e nel sangue. E allora la scelta è tutta dentro il ricatto immenso che Taranto subisce ogni giorno: chiudere la fabbrica e morire di fame o continuare a tenere viva la macchina che uccide.

L’alternativa non è presa in considerazione da nessuno perché nessuno ha il coraggio di assumersi la responsabilità di provare a trasformare la fabbrica che uccide in qualcosa che possa essere compatibile con la vita delle persone. Tentare tutti insieme, compreso quello Stato che non c’è, a riconvertire, a bonificare, a ristrutturare. Ma il mercato, il Sistema e il capitale, non si assumeranno mai questa responsabilità, perché a loro non interessa nulla di chi muore di fame o di lavoro. Per questo la città di Taranto continuerà a morire di lavoro e per il lavoro. Oppure può scegliere di morire di fame. Un giorno, ai bambini di Taranto che riusciranno a cavarsela e a diventare adulti, qualcuno dovrà spiegare quanto vale una colata di acciaio in cambio della vita.

“La classe operaia va in paradiso”, ma nella notte fra il 5 e il 6 Dicembre del 2007 gli operai del turno di notte della ThyssenKrupp di Torino hanno conosciuto l’inferno, e il fuoco di quella notte si è preso tutto quello che poteva rubare a un gruppo di amici. L’ultima colata, in una fabbrica dimenticata da Dio e dagli uomini, altro che paradiso. Quella notte erano lì perché quel fottuto lavoro dovevano farlo, quel maledetto salario serviva per andare avanti e loro non avevano scelta perché nessuno gli ha dato la possibilità di scegliere. “Se a Torino chiedi degli operai della Thyssen, ti indicano il cimitero. Bisogna prendere il viale centrale, passare davanti ai cubi con i nomi dei partigiani, andare oltre … Al cimitero hanno messo le sigarette sopra ogni tomba. Un pacchetto di Diana per Angelo, due sigarette sciolte vicino alla fotografia di Antonio, una sulla sciarpa di Roberto, le Marlboro per Giuseppe e per Rosario. Subito non capisco, poi sì. I ragazzi di oggi non comprano più le sigarette, ma i ragazzi operai sì, le hanno sempre in tasca. Metterle lì, tra i fiori dei morti, è un modo per riconoscerli e per renderli visibili (leggi qui).

“La classe operaia va in paradiso”, e si porta dietro la sua storia. È una storia che racconta di fatica e orgoglio, di diritti conquistati e calpestati, di notti passate davanti a colate di acciaio, di lavoro in catena, di reparti dove vernici e smalti chiedono un bicchiere di vino e una sigaretta per riuscire ad andare avanti. Quella storia parla di amianto e bestemmie, di partite a carte con la vita e con gli amici, parla di sveglie quando il sole non ha ancora aperto gli occhi e tutti dormono ancora, di ore di viaggio per arrivare davanti ai cancelli, di ore di lotte e di scioperi contro il padrone e contro i crumiri. Quella storia racconta di vite e di umanità, di sogni e d’illusioni. Esiste ancora la classe operaia, con le sue tute blu e con le tante altre facce di chi lavora in cambio della vita, esiste anche se si preferisce fingere di non vederla. Ha la faccia stanca di chi ha attraversato tutte le fatiche e le sconfitte.

L’Italia è una Repubblica fondata sul Lavoro, e il “Lavoro” non è solo la fabbrica o il campo dove muoiono i nuovi schiavi sotto il ghigno delle mafie e dei caporali, lo so. Il lavoro è ovunque, è anche altro, ma è “La classe operaia che va in paradiso” nell’indifferenza del capitale. Il paradiso non esiste, e allora è qui sulla terra che la dignità va conquistata un metro alla volta, un giorno alla volta. Il “paradiso” può attendere.

“La fabbrica è una condanna senza reato. Esiste un prima e un poi per chi è stato condannato alla fabbrica, un prima della fabbrica e un poi nella fabbrica”.

Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org