Una parola che pareva scomparsa, o almeno in via di sparizione, è tornata di prepotente attualità. È il sostantivo dazio, derivato dal latino medievale datio che significava “l’atto di dare”. Nello schema frammentato di quel periodo della storia europea, i dazi costituivano una delle principali tasse che il potere incassava senza alcun costo: si esigeva, infatti, un pagamento per autorizzare il semplice transito di una merce. Più recentemente i dazi si sono trasformati in strumenti per regolare il mercato interno, gravando per esempio il costo delle merci prodotte all’estero al fine di tutelare la produzione nazionale, e sono divenuti parte importante negli accordi tra Stati.
Durante il periodo mercantilista questo strumento cominciò a essere usato in modo ambiguo. Le potenze europee neo-industrializzate alzavano barriere doganali e applicavano dazi sulle importazioni, ma pretendevano (e ottenevano a colpi di cannone) libero accesso ai mercati dell’Asia, dell’Africa o dell’America Latina. Arrivarono anche a distruggere interi comparti produttivi concorrenti per garantirsi il monopolio, come fece la Gran Bretagna dei telai meccanici nei confronti dei produttori di tessuti indiani quando nacque l’Impero. Durante la Guerra Fredda il problema non si poneva, la priorità era lo scontro tra i due blocchi, all’interno dei quali Stati Uniti e URSS dettavano le regole.
Con l’avvio dell’ultima ondata di globalizzazione e l’apertura dei mercati mondiali alla circolazione di merci e capitali, pareva che i dazi potessero scomparire nei rapporti commerciali. Nel 1995 nacque l’Organizzazione Mondiale del Commercio, meglio nota con l’acronimo WTO, con l’obiettivo di eliminare progressivamente barriere doganali e dazi seguendo la linea dettata dalle potenze occidentali.
Al WTO è stato attribuito un ruolo centrale finché l’abbattimento delle barriere doganali andava a vantaggio dei suoi azionisti di maggioranza. Ma da quando la bilancia commerciale mondiale ha cominciato a pendere a favore della Cina e dell’Oriente, ecco che questa organizzazione è stata progressivamente marginalizzata. Le delocalizzazioni produttive, e ancor più la nascita di mercati di consumatori giganteschi in Paesi fino a pochi anni fa poverissimi, hanno infatti rimescolato le carte: gli Stati Uniti, che avevano dato il via e guidato l’apertura dei mercati, hanno cominciato a registrare uno spostamento della bilancia commerciale sempre più marcato a favore dei Paesi esteri.
Cina, Canada, Messico, addirittura l’Europa hanno saldi positivi negli scambi con la prima potenza mondiale, che per prima aveva trasferito all’estero interi settori produttivi. Questa nuova situazione potrebbe rappresentare una grande opportunità per discutere le regole e la governance della globalizzazione: l’agenda dovrebbe certamente comprendere le pratiche commerciali sleali abbondantemente usate dalla Cina, ma anche i temi della fiscalità globale, dell’impatto ambientale, dei diritti dei lavoratori.
Se la comunità internazionale concordasse una maggiore omogeneità dei costi del lavoro e arrivasse a parametri condivisi di tutela dell’ambiente, il volto della globalizzazione cambierebbe ancora una volta. Invece, la linea dettata da Washington va in tutt’altra direzione e recupera i dazi come arma di politica estera: i dazi per colpire nemici, i dazi per colpire un popolo o una categoria. L’aspetto più paradossale di questo ritorno al passato è stata la mossa insolita con cui Donald Trump ha minacciato di imporre dazi contro il Messico se questo Paese non bloccherà il flusso di profughi centroamericani diretti verso la frontiera con gli USA. È chiaro che questi atteggiamenti allontanano la soluzione dei problemi e preparano un conflitto che vedrà tutti contro tutti: come nei tempi remoti del Medioevo, quando la visione del mondo coincideva con i confini del proprio feudo.
Alfredo Luis Somoza (Sonda.life) -ilmegafono.org
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