I nostri mari sono minacciati da molte insidie, purtroppo tutte derivanti dall’indifferenza dell’uomo per la natura e per la sua tutela. Il mare e gli esseri viventi che lo popolano vivono una situazione ormai drammatica, fra inquinamento (con la plastica che ormai ha raggiunto dimensioni più che allarmanti), progetti industriali distruttivi, pesca di frodo o pesca intensiva, ecc. Proprio alla pesca è dedicato il rapporto “FRA poco spariranno” (leggi qui), pubblicato da Greenpeace. Un rapporto che denuncia l’inefficacia delle misure di tutela delle aree di riproduzione delle specie ittiche nello Stretto di Sicilia, in particolar modo il gambero rosa (o bianco) e il nasello.
Secondo quanto riporta il dossier dell’organizzazione ambientalista, decine di pescherecci a strascico (almeno 147 imbarcazioni in circa tre anni) hanno svolto presunte attività di pesca in tre zone tutelate dello Stretto di Sicilia. I pescherecci in questione sono quasi tutti battenti bandiera italiana e provengono principalmente dai porti di Mazara del Vallo, Sciacca, Porto Empedocle, Licata e Portopalo di Capo Passero. Le zone di riproduzione (nurseries) sono oggetto di una proposta di divieto di pesca che risale al 2006 e che è stata adottata dalla Commissione Generale per la Pesca nel Mediterraneo della FAO che, nel 2016, ha stabilito l’istituzione di tre Fisheries Restricted Areas (FRA) nello Stretto di Sicilia.
Da qui il gioco di parole del dossier di Greenpeace “FRA poco spariranno”, che lancia l’allarme sull’enorme rischio di sparizione delle specie ittiche pescate in queste aree delicate. Il punto è che però quanto stabilito dalla Commissione non si è mai tradotto in una normativa che vieta la pesca in queste tre zone di mare denominate FRA (Fisheries Restricted Areas). Anzi, l’attività di pesca sembra addirittura essere aumentata dopo la loro istituzione. “La cosa più incredibile – afferma Greenpeace nella nota – è che i pescherecci che abbiamo identificato non hanno fatto nulla di illegale perché le raccomandazioni del CGPM-FAO sono rimaste solo sulla carta e la pesca tende pure ad aumentare!”.
“Le ‘raccomandazioni’ FAO – prosegue Greenpeace – sono quindi carta straccia e, in conclusione, si sono persi almeno dodici anni per dare una speranza di futuro al mare, alle sue risorse e ai pescatori”. Ecco perché, di fronte a questo scempio, l’organizzazione ambientalista chiede alla Commissione Generale per la Pesca nel Mediterraneo della FAO di “intervenire con fermezza nei confronti dell’Italia, che non ha fatto assolutamente nulla di concreto per far rispettare una norma così elementare come il divieto di pesca nelle zone dove i pesci si riproducono”.
Intanto, in questo quadro difficile e deprimente, arriva una notizia positiva per il mare, che è il frutto di una lunga battaglia di sensibilizzazione e lotta condotta da Greenpeace e relativa alla pesca. Rio Mare, uno dei colossi del settore del tonno, ha finalmente deciso di accettare la sfida lanciata da Greenpeace con la storica classifica “Rompiscatole” che individuava le aziende del settore meno virtuose, e si è impegnata a ridurre l’utilizzo dei metodi di pesca più dannosi. Parliamo di un’azienda agli ultimi posti per sostenibilità e che oggi annuncia di voler cambiare rotta. Vedremo sei alle parole seguiranno impegni e fatti concreti.
Redazione -ilmegafono.org
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