Un applauso lunghissimo, sette minuti. E poi l’abbraccio intenso e struggente fra Ilaria Cucchi e Alessandro Borghi, l’attore che ha dato il volto e la voce a Stefano Cucchi. Tutto questo succedeva al Festival di Venezia alla fine di agosto. Stefano non aveva avuto nessuna possibilità di farla sentire la sua voce in quei sette giorni che vanno dal 15 ottobre, quando viene fermato dai carabinieri, al 22 ottobre 2009, quando muore avvolto nei suoi trentasette chili di umanità stracciati da bestie vestite da uomini. Lo Stato non gli aveva mai dato questa possibilità. La sua era una voce nel deserto, Roma e l’Italia non avevano orecchie e cuore per lui e per la sua famiglia. Solo silenzio, indifferenza e menzogne, fastidio.
Stefano è stato ucciso più volte, la sua discesa all’inferno comincia nella notte del suo arresto e poi continua, attraversando tutti i gironi di quell’inferno: violenza prima e indifferenza poi, fino all’ultimo respiro. In seguito Stefano viene ucciso ancora, dalle menzogne raccontate in ordine sparso da tutti coloro che nelle aule di tribunale hanno negato le botte e le violenze e da chi queste menzogne le ha coperte e protette, dalle parole sprezzanti e volgari rivolte alla sorella Ilaria che da sempre si batte con coraggio per una verità che prima o poi dovrà arrivare.
Poi arriva, nelle notti di un’estate che sta chiudendo la sua porta, il film di Alessio Cremonini: “Sulla mia Pelle”. Saluta Venezia con quei sette minuti di applausi commossi ed entra nelle sale e nelle piazze d’Italia. Tantissime le iniziative di proiezione del film e una risposta semplicemente straordinaria. “Sulla mia pelle” finalmente restituisce la voce a Stefano Cucchi e quella voce entra nella pelle e nel cuore dei tanti che hanno deciso che quel film bisognava vederlo davvero, ma non da soli. Quel film andava visto insieme a chi sapeva e voleva condividerne l’emozione, l’intensità. Condividerlo in silenzio ascoltando la voce di Alessandro Borghi che parlava per conto di Stefano, sentire quel brivido sulla propria pelle e capire che la storia di Stefano in fondo appartiene a tutti.
In una bella e intensa intervista a “Il Manifesto”, Ilaria Cucchi usa parole che toccano e lasciano un segno, e che è giusto ricordare: “Che se ne parli, e faccia discutere di una storia che si voleva negata fin dall’inizio ma che era chiara ed evidente agli occhi nostri e di coloro che si sono approcciati con onestà a questa nostra vicenda. Mi vengono in mente tutti coloro che in questi anni si sono augurati che di Stefano Cucchi non se ne parlasse più. E mi viene in mente che questo film sarà visto in 190 paesi del mondo, su Netflix. Non posso non pensare da dove siamo partiti: a Stefano che muore da solo come un cane nell’indifferenza generale di tutti coloro che gli ruotano attorno in quei sei giorni del suo calvario; a me e ai miei genitori che ci troviamo di fronte ad un agente che ci dice che il ragazzo si è spento, che possiamo solo farcene una ragione perché tutto si è svolto nell’ambito delle regole; ai nove anni di lotta per aprire una breccia nell’oscurità”.
“E adesso mi guardo attorno – continua Ilaria nell’intervista – e mi rendo conto che il lavoro che abbiamo fatto Fabio (l’avvocato Anselmo, ndr) ed io ha raggiunto il risultato di risvegliare le coscienze di tutti, anche di coloro che mai avranno a che fare con vicende simili a quella che è toccata a me e alla mia famiglia. Ma che ora percepiscono che se vinciamo la nostra battaglia sarà una vittoria anche per affermare i loro diritti […] Ho notato anche che gli spettatori fanno fatica ad alzarsi dalle poltrone, come se non volessero andare via”.
Ripensi a queste parole e sai che è andata davvero così, a volte succede che il cinema faccia questi miracoli: risvegliare coscienze, costringere a riflettere e pensare, costringere noi stessi all’indignazione. Davvero quel film è stato visto in un silenzio assordante e c’è stato bisogno di qualche minuto prima di rialzarsi dalla poltrona. Come un ultimo segno di rispetto per quel ragazzo che abbiamo sentito indifeso e umiliato e che nessuno ha voluto ascoltare. Ora quel film non resterà confinato nelle sale e nelle piazze ma farà il giro del mondo. La storia di Stefano non è ancora chiusa, ci saranno altre discussioni, altre udienze di tribunale e forse il muro di gomma riuscirà a vincere anche questa partita.
La storia di questo Paese è circondata dai muri di gomma, ma forse qualche crepa si aprirà in quei muri. E poi, come dice Ilaria, “è vero che all’inizio eravamo soli, ma oggi sento la vicinanza di persone diversissime tra loro che hanno visto come propria ogni nostra anche piccola vittoria. Come un senso di rivalsa davanti ai piccoli o ai grandi soprusi che ciascuno di noi può essere costretto a subire nel proprio vivere quotidiano, in ogni ambito”.
C’è uno Stato che ha il compito e il dovere di recuperare dignità e credibilità, ammesso che lo voglia. Non so se questo accadrà, ma questo compito è fuori discussione. Esiste una forma di prevaricazione, di violenza fisica e psicologica che nasce dalla sensazione d’impunità che s’instilla in molti uomini che indossano una divisa e li trasformano in qualcosa e qualcuno di cui avere paura. E allora non possono che indignare le reazioni e le critiche rivolte al film da molti sindacati delle forze dell’ordine. Il Cocer, organo di rappresentanza dei carabinieri, che afferma: “Ci sarebbe da indignarsi se si accertasse che lo stesso è stato prodotto con il contributo dello Stato”.
Indignano le parole di Gianni Tonelli, ex segretario del Sap (Sindacato Autonomo di Polizia) e oggi onorevole leghista: “Mi chiedo: si può mandare in mezzo mondo un film che dà allo spettatore un’idea non suffragata da sentenze? Ed è vero che lo Stato ha finanziato il film con 600mila euro? È questa la cultura italiana da esibire in una mostra internazionale? Io non mi farò intimidire, e da parlamentare andrò in fondo a questa storia”.
Parole vuote, prive di senso e di umanità: per quanto riguarda il film, gran parte dei dialoghi è presa dalle testimonianze e dagli atti processuali e in quanto alla cultura da esibire in una mostra internazionale la domanda andrebbe rivolta non a chi ha fatto quel film ma a chi, con i suoi comportamenti, calpesta il diritto e la vita. Per tutto il rest,o il corpo spezzato di Stefano Cucchi e le fotografie che hanno fatto il giro del mondo non hanno bisogno di parole, raccontano tutto e molto chiaramente. In quanto alle sentenze, un giorno, forse, arriveranno. Questo Paese aspetta da tempo molte sentenze e sa che non arriveranno mai più, ma ci sono storie che per essere capite non hanno bisogno delle sentenze di un tribunale.
Ma stiano tranquilli, continueremo a chiedere che i tribunali indaghino e lavorino per arrivare alle sentenze, non sono certo i cittadini ad avere paura della verità. C’è una scena del film che merita una citazione particolare e che spiega benissimo cosa significano paura e sfiducia: all’ennesima domanda sul perché dei tanti lividi presenti sul suo corpo e sul suo volto, Stefano Cucchi risponde che è caduto dalle scale. Chi gli ha rivolto la domanda ribatte: “Quand’è che la smetteremo de raccontà sempre ‘sta stronzata delle scale?”. La risposta di Stefano è toccante: “Quando le scale smetteranno de menacce”.
Ecco, quando le scale smetteranno di “menare” sarà un buon inizio e forse quei rappresentanti sindacali che oggi s’indignano dovranno chiedere scusa ai tanti che, come Stefano, hanno incontrato le divise sbagliate e hanno attraversato tutte le scale dell’inferno.
Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org
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