È passato anche questo 23 maggio. Se n’è andato via come sempre, tra le parole convinte di chi questa data drammatica l’ha trasformata in impegno quotidiano e la retorica spicciola di chi invece è costretto a dire qualcosa, senza nemmeno curarsi di essere convincente. Se n’è andato via questo 23 maggio, coperto dalle notizie noiose sul governo nascente, dal dibattito “avvincente” sul curriculum, dal sensazionale chiacchiericcio sulle mani in tasca del presidente della Camera durante l’inno nazionale. Ci ha lasciato le immagini, i nostri ricordi personali, la commemorazione, i post sui social, ma soprattutto i silenzi. Pesanti, ingombranti, eloquenti.
Eppure, quello di quest’anno, così come sarà quello del 19 luglio in via D’Amelio, non è un anniversario qualunque, perché le due commemorazioni, in questo 26esimo anno, sono state precedute da un avvenimento che in qualsiasi altro Paese avrebbe creato un terremoto politico di dimensioni enormi: la sentenza di primo grado sulla trattativa Stato-mafia, con le sue condanne e i riferimenti chiari agli attori in campo e ai loro mandanti politici. L’Italia, però, tranne un pezzo del movimento antimafia, non se n’è quasi accorta, è andata avanti, come non fosse interessata o non volesse sapere. Ecco perché questo 23 maggio, per la gran parte degli italiani, se n’è andato via ancora più velocemente del solito.
Nessuno, d’altra parte, si aspettava qualcosa di diverso. Nessuno si attendeva qualcosa in più da una politica che da tempo ormai ha smesso di occuparsi di mafia e con una buona parte della stampa che dà sempre più spazio a elementi superficiali e sempre meno alla sostanza. Il presidente Fico che rimane con le mani in tasca mentre risuona l’inno di Mameli, instancabile appiglio di un patriottismo sgangherato e formale, fa incredibilmente più notizia delle sue dichiarazioni. Fico ha infatti parlato di lotta alla mafia come priorità, dimenticando d’un tratto che il suo partito non ha dedicato una parola, né in campagna elettorale né successivamente, al contrasto alla criminalità organizzata, così come non ha assegnato rilevanza alcuna al tema nel famigerato contratto di governo con la Lega.
Ci sarebbe stato parecchio da dire, da controbattere, ma le mani in tasca sono state ritenute molto più interessanti delle parole vuote e ipocrite, molto più sensazionali di una narrazione schietta ed efficace. Così accade che per la coscienza collettiva di questo Paese la commemorazione venga scambiata per memoria, diventando un’esercitazione narcotizzante utile solo a raccontare ai bambini chi erano gli eroi antimafia e a mostrare quanto amore ricevono dal popolo che li ricorda con le lacrime sul viso e i sorrisi di riconoscenza. Oggi, però. Da morti. Senza raccontare la verità, cioè che da vivi Falcone e Borsellino sono stati odiati, disprezzati, attaccati come pochi nella storia d’Italia. Sottoposti al fuoco incrociato di nemici esterni e interni. Delegittimati, isolati, ostacolati, infangati da opinione pubblica, colleghi e perfino intellettuali acuti.
Come mi ha detto qualche tempo fa Nando Dalla Chiesa, esiste un “problema di onestà della memoria”. Se, a proposito di quegli anni, continuiamo a narrare la favola dello Stato interamente buono schierato in maniera granitica contro la mafia, se continuiamo a tacere sulle complicità istituzionali, sui cattivi di Stato, sulla trattativa che sappiamo con certezza essersi svolta, non faremo mai un favore alla nostra memoria collettiva. Perché non bastano le commemorazioni a salvare la coscienza di un Paese. Non basta ubriacarsi con la retorica e con due righe o una dichiarazione per sentirsi a posto e poi, il giorno dopo, non occuparsi più di mafia.
La memoria è un’altra cosa, la memoria è quotidiana, è esercizio, impegno, sacrificio. La memoria non è intima, ma è rumorosa, è urlo, azione, movimento. La memoria è un pugno sferrato sullo stomaco del silenzio, delle connivenze, delle meschinità e dell’omertà di Stato. La memoria è un pugno ben assestato sulla coscienza sporca di chi ha trattato alle spalle di chi combatteva. La memoria è giudizio morale e politico, che prevale su quello giudiziario, lo anticipa, lo esprime nelle scelte e nell’emarginazione doverosa di chi è giudicato colpevole. La memoria è rinuncia delle proprie convenienze, della attitudine naturale all’autoconservazione, la memoria è rivoluzionaria, impetuosa, partecipante.
Quegli anni maledetti, chi li ha vissuti, li ricorda bene. L’orrore di quel periodo oggi può essere battuto solo se ce lo portiamo dentro ogni giorno, quando scegliamo di rifiutare un incarico, un favore o di regalare un sì, quando scegliamo di non chiudere gli occhi, di non stare zitti, di non accettare una prevaricazione in silenzio, quando non accettiamo un lavoro anche se ne avremmo bisogno, quando decidiamo per chi votare liberamente e non cediamo la nostra libertà di scelta. Ciascuno di noi, scegliendo la propria dignità e facendo il proprio dovere anche quando questo frantuma comodità e tranquillità, dà importanza alla memoria e al lavoro di chi ha combattuto e combatte, costruendo mattone dopo mattone una speranza concreta, fornendo esempi a chi ci sta intorno e ne ha bisogno.
Come abbiamo bisogno di costringere chi governa e governerà a tornare ad occuparsi di mafia. Per farlo dobbiamo muoverci noi, in tutta Italia, perché non è vero che la situazione sia sempre la stessa e che le cose non possano cambiare, ma di certo se non facciamo il nostro dovere si rischia di tornare indietro. Quei giorni terribili del 1992 arrivarono in un momento nel quale la mia città, Siracusa, era fortemente segnata dalla violenza del racket e dalla recente guerra tra clan che insanguinava le strade di quella che era ed è tuttora considerata erroneamente la “provincia babba”, ossia tranquilla e ingenua. Per la Sicilia, dilaniata da anni di terrore, Capaci fu una ferita atroce, l’ennesima. Noi siciliani ricordiamo perfettamente la rabbia, il dolore ma anche la voglia di reagire. Una parte dei siciliani lo fece e questa reazione divenne visibile.
Nelle zone nelle quali prima la mafia dominava qualunque cosa, il minimo movimento o persino un bisbiglio, a un certo punto le lenzuola bianche non vennero più usate per coprire i cadaveri in terra, ma per testimoniare, appese ai balconi o poggiate alle ringhiere, il rifiuto, il no deciso alla mafia e l’appartenenza alla stessa parte di chi la combatteva fino all’estremo sacrificio. Quello spirito e quella forza propulsiva sono ancora esistenti, forse mostrano stanchezza, scoramento, distrazione, sfilacciamento, ma ci sono. E oggi non solo in Sicilia per fortuna. È necessario recuperarli, riunirli. Bisogna alzare nuovamente la voce. Tutti i giorni.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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