Il riscaldamento globale sembra essere un fenomeno a cui non si riesce a dare tregua. Un recente studio della University of California di Irvine, pubblicato su Science, descrive gli effetti che l’aumento delle temperature avrebbe nell’arco dei prossimi 300 anni. Se si continua così, il clima del nostro Pianeta rischia di cambiare drasticamente e non ci vorrà molto per trasformare la Terra in un luogo ben poco ospitale. Le conseguenze di questo processo non sono poche e di certo non trascurabili, come un forte declino della pescosità di mari e oceani, che perderebbero in media più del 20 per cento della loro produttività entro il 2300.

Per i loro studi, i climatologi californiani si sono rifatti al quadro più drammatico che poteva emergere, prendendo in considerazione il ritmo del momento e senza sosta. A quel punto, è stato possibile determinare un aumento delle temperature di quasi 10 gradi entro il 2300 e condizioni estreme in cui le calotte polari si scioglierebbero quasi completamente, sommergendo le isole e inondando grandi porzioni di terraferma, modificando temperature e correnti di mari e oceani.

Uno scenario difficile da immaginare, ma nel quale sicuramente la vita di molte specie non sarebbe affatto facile. Quelle che avrebbero la peggio sarebbero le forme di vita che abitano appunto mari e oceani, per colpa di un cambiamento radicale del ciclo di distribuzione delle sostanze nutritive negli ambienti marini del globo.

“Nelle condizioni che abbiamo analizzato si osserverebbero forti modifiche nella crescita del fitoplancton e nelle correnti oceaniche nell’area dell’Antartide, e questo avrebbe come effetto un trasferimento importante di nutrienti dalla superficie verso le profondità dell’oceano – spiega Keith Moore, professore di Earth system science della University of California di Irvine e coordinatore della ricerca -. È proprio nell’aria dell’Antartide che oggi le correnti spingono i nutrienti verso la superficie dell’oceano, muovendoli poi verso nord per alimentare il plancton e le popolazioni ittiche delle latitudini più settentrionali”.

In realtà, nello scenario descritto dai modelli climatici questo processo non funzionerebbe così, poiché i nutrienti verrebbero bloccati in profondità nell’area antartica. A questo punto, si provocherebbe una crescita rigogliosa del fitoplancton locale che contribuirebbe ulteriormente a intrappolare le sostanze nutritive, impedendogli di raggiungere le zone più settentrionali. E così a latitudini maggiori scarseggerebbero sia il plancton (che rappresenta la base della catena alimentari degli ecosistemi marini) che i pesci.

Una stima globale porterebbe a ipotizzare che nel 2300 questi fenomeni diminuirebbero la pescosità delle acque di circa il 20 per cento. Se già questo dato ci può sembrare allarmante, bisogna sottolineare che altre zone saranno colpite da una diminuzione del 60 per cento, come nell’Atlantico del nord, e del 50 per cento, come nel Pacifico occidentale. Cifre preoccupanti sia a livello ambientale che per il possibile impatto sull’alimentazione umana. I ricercatori, infatti, stimano che questo processo potrebbe protrarsi per tantissimo tempo se si continua a produrre gas serra ai ritmi attuali. L’impoverimento delle acque oceaniche emerso dallo studio potrebbe durare anche più di un millennio.

“È questo che ci aspetta se non riusciremo a porre un freno al riscaldamento globale – conclude Moore -. Siamo ancora in tempo per riuscire a evitare un ulteriore aumento delle temperature e per tornare ad avere un clima stabile entro la fine di questo secolo. Per farlo, però, sarà essenziale ridurre fortemente il nostro ricorso ai carburanti fossili e le emissioni di gas inquinanti”.

Veronica Nicotra -ilmegafono.org