Anno 1947, 1° maggio. A Portella della Ginestra si scrive la prima pagina del libro nero delle stragi dell’Italia appena uscita dalla guerra voluta dal regime fascista. In pochi attimi, la festa dei lavoratori diventa un prato macchiato dal sangue di chi fu cancellato in quel giorno che doveva essere diverso. La strage porta la firma di Salvatore Giuliano e della sua banda, ma il tempo racconterà meglio la verità sulla prima strage dell’Italia repubblicana, una verità che aprirà tante porte sulle stanze degli apparati dello Stato, mettendo a nudo i legami tra la mafia e gli ambienti latifondisti e una parte consistente della classe politica.

Dopo quell’eccidio seguì un periodo di attentati contro le sedi del Partito Comunista e del Sindacato, rivendicati da Salvatore Giuliano che esortava la popolazione e i lavoratori a liberarsi del “pericolo comunista”. Sono passati settant’anni da quel 1° maggio nella Piana degli Albanesi vicino a Palermo. E tante cose sono cambiate attorno alla Festa del Lavoro, ma il suo significato più profondo resta intatto, anche se in tanti si adoperano per trasformarla. È cambiato, prima di tutto, il mondo del lavoro e sono cambiati gli attori protagonisti: i lavoratori.

“…A sera, quando il sole calava e sui vetri delle case splendeva stanco il sole dei suoi raggi, la fabbrica espelleva gli uomini dalle sue viscere di pietra come scorie inservibili, ed essi ripercorrevano la via, affumicati e con le facce annerite… Un’altra giornata era stata cancellata per sempre dalla vita”, scriveva Maksim Gor’kij, nel romanzo “La Madre”, scritto agli inizi del Novecento, il 1906 per esattezza. Ecco, quei tempi sono lontani ma, forse, quegli uomini, espulsi come scorie inservibili, esistono ancora. Hanno le facce dei tanti sfruttati che in ogni angolo del mondo arrivano distrutti alla fine della loro giornata, umiliati nella loro dignità e nel fisico, per esempio dopo aver lavorato nelle piantagioni di banane che arrivano nei nostri supermercati con l’etichetta.

Oppure dopo aver pagato il dazio ai “caporali” di casa nostra per raccogliere pomodori in cambio di un’elemosina, lavorando in orari impossibili e a ritmi disumani. Questo accade, ma in troppi fanno finta di non vedere e non sapere, forse perché sono storie che pensiamo non ci appartengano: le banane le raccolgono in Ecuador e in Colombia, e la raccolta dei pomodori è storia di braccianti che il più delle volte hanno la pelle nera, migranti che per un mese di lavoro pagano a volte con la vita.

Poi ci sono le nuove forme di sfruttamento del lavoro, più moderne e più raffinate perché garantite da leggi dello Stato. Per alcuni sono anzi un segnale di progresso: le mille forme di contratto, le esternalizzazioni, gli stage…tutto quello che trasforma un lavoratore in un eterno precario che magari cambia lavoro ogni sei mesi, per salari che non hanno nulla di civile e di umano, ma che permettono ai moderni padroni del vapore di sentirsi a posto con la legge e con la coscienza. Ci sono i supermercati aperti sette giorni su sette, ventiquattro ore al giorno, ci sono le fabbriche che muoiono o sono già morte per cui non vale la pena tutelarne la sicurezza, tanto dovranno chiudere. In quanti ricordano oggi il rogo della ThyssenKrupp di Torino? Eppure sono passati solo pochi anni, meno di dieci: era il dicembre del 2007.

Nei quartieri delle nostre città i negozi chiudono, un po’ alla volta tutti i giorni. Quanto cambia la faccia di un quartiere quando le saracinesche si abbassano? Che differenza passa fra un quartiere e un dormitorio dove alle sette di sera tutto intorno è silenzio? Questa è l’epoca dei centri commerciali, di Amazon e dell’acquisto online. Non importa quali siano le condizioni in cui lavorano i dipendenti, non si vedono. Quanti posti di lavoro si sono persi in questi ultimi anni in nome della produttività e del costo del lavoro, dell’efficienza? Quante aziende hanno chiuso e quante sono state vendute al mercato estero?

Strano, le uniche aziende che non conoscono crisi sono quelle che vendono armi e producono morte. Eppure la ricerca, la tecnologia e la scienza dovrebbero essere al servizio dell’Uomo, non lavorare per la sua distruzione. In quanti barattano la propria intelligenza con un lavoro sicuro al servizio di chi vende morte? Quanto valgono la nostra intelligenza e la nostra conoscenza se la vendiamo al primo angolo di strada per trenta denari? Un giorno o l’altro, prima o poi, dovremmo porcela questa domanda: come si lavora, a quali condizioni, per chi e perché.

Davvero pensiamo che “ … quegli uomini espulsi dalle sue viscere di pietra come scorie inservibili … “ non esistano più? Usciamo dalle mura delle nostre case, guardiamo fuori dal nostro giardino e cerchiamoli quegli uomini. Li troveremo in tanti angoli del mondo. Se riusciremo a vederli allora sapremo ritrovare anche il vero significato della Festa dei Lavoratori, quel Primo maggio che in tanti ci vogliono far credere che in fondo è solo un giorno buono per una gita fuori porta. No, il Primo maggio non è solo un giorno di festa: è solidarietà, è guardarsi in faccia, è ritrovarsi per non perdersi. È credere davvero che il lavoro possa e debba camminare accanto alla dignità e all’uguaglianza, altrimenti è solo sfruttamento.

Se riusciremo a capire tutto questo allora avrà un senso importante ricordare la strage di Portella della Ginestra. Perché quella strage, mafiosa e fascista, fu il primo avviso che i lavoratori dell’Italia Repubblicana ricevettero: non alzate la testa, state al vostro posto. Invece, anche dopo quella strage, i lavoratori la testa l’hanno alzata, hanno conquistato dignità e diritti pagando prezzi altissimi. È la storia che ce lo ricorda, ma ora l’orologio dei poteri vuole riportare indietro le lancette della storia: quelle conquiste vengono azzerate, cancellate. Teniamola alta la testa, facciamolo per noi e per quelle generazioni che hanno lottato e pagato per quelle conquiste.

Se sapremo farlo le potremo dare in regalo alle generazioni che verranno dopo di noi. Se sapremo farlo allora il 1° maggio potrà davvero essere un giorno di festa. Se non ne saremo capaci, un altro Maksim Gor’kij potrà riscrivere ancora: “…A sera, quando il sole calava e sui vetri delle case splendeva stanco il sole dei suoi raggi, la fabbrica espelleva gli uomini dalle sue viscere di pietra come scorie inservibili, ed essi ripercorrevano la via, affumicati e con le facce annerite… Un’altra giornata era stata cancellata per sempre dalla vita”.

Maurizio Anelli (Sonda.life) -ilmegafono.org