Sono passati poco più di quindici mesi dall’istituzione della Commissione parlamentare di inchiesta sull’omicidio del militare di leva della Folgore, Emanuele Scieri (leggi qui), avvenuto nella notte tra il 13 e il 14 agosto 1999 nella caserma Gamerra di Pisa. I lavori della Commissione vanno avanti e, il 30 gennaio scorso, è stata la volta di tre ex rappresentanti di primo piano del celebre corpo militare italiano: il generale Enrico Celentano, all’epoca a capo dell’intero corpo, e il generale Calogero Cirnieco, all’epoca dei fatti comandante della caserma Gamerra. Con loro, infine, anche il generale Emilio Ratti, in quell’estate del 1999 tenente-colonnello e comandante di battaglione. Le audizioni, durate in totale quasi nove ore, sono state caratterizzate dai ripetuti “non ricordo” e dal rifiuto dell’idea che Emanuele Scieri possa essere stato ucciso, nonostante i risultati certi forniti dall’autopsia e dalle verifiche tecniche e nonostante ciò sia stato sancito dalla sentenza di archiviazione con la quale si è concluso l’unico processo istruito nel passato.
Al di là dell’atteggiamento di ogni singolo testimone, quello che si percepisce è il persistere ottuso di una solida cortina di omertà da parte di gente che, in modo diretto o indiretto, sa sicuramente qualcosa o, come minimo, ne ha un’idea precisa. Particolarmente stucchevole e poco credibile il retorico dispiacere espresso, dai militari sentiti, nei confronti di questo ragazzo e della sua famiglia, dal momento che poi nulla hanno voluto aggiungere, continuando ad aggirare furbescamente le domande della Commissione, negando perfino quelle che sono certezze derivanti da atti processuali (una su tutte, la telefonata partita da un telefono cellulare in dotazione al generale Celentano, la sera stessa della sparizione di Scieri, e diretta all’abitazione del generale stesso).
Non entriamo nel merito della buonafede di ciascuno, né tantomeno vogliamo assegnare, in queste pagine, responsabilità dirette o materiali nell’omicidio Scieri, ma quello che è deprecabile è l’assenza evidente di qualsiasi volontà di far luce o di aiutare l’organo istituzionale a giungere alla verità su quella notte e sui giorni successivi, quando il corpo di Emanuele è rimasto steso al sole, sotto delle tavole e del ciarpame, in una posizione incompatibile con la sua caduta, senza che nessuno si fosse preoccupato di cercarlo. Tre giorni di buco che si sommano al vuoto delle ultime ore di Scieri, che partono dall’ultima volta in cui egli è stato visto (dal commilitone Viberti) e arrivano, dopo l’agonia di almeno sei ore, alla morte ancora avvolta nel mistero per quel che riguarda i responsabili. Tutti però sembrano preoccuparsi, come è accaduto in questi anni, solo di conservare il buon nome della Folgore.
L’immagine di un reparto, dunque, continua a valere più della verità e della giustizia. Ciò malgrado, in Commissione, nessuno abbia pensato, in alcun momento, di etichettare la Folgore come interamente colpevole o di ricordare, agli intervenuti che la lodavano, certi capitoli oscuri legati a questo corpo dell’esercito (come ad esempio le inchieste e le condanne per violenze e torture commesse da alcuni militari in missione in Somalia). L’obiettivo è esclusivamente quello di individuare i responsabili di un omicidio e di far emergere finalmente una verità nascosta e attesa da troppo tempo. Con questo atteggiamento reticente, però, il compito appare davvero arduo, anche se probabilmente i membri della Commissione lo sapevano già e di certo non si aspettavano tappeti rossi e mani alzate con impeto per chiedere la parola e spifferare tutto.
C’è un muro di gomma, c’è un tempo passato che ha fatto la sua parte, visto che nel frattempo alcuni capi, che all’epoca avevano ruoli in caserma e nella Folgore, sono morti e non possono più parlare. Ci sono testimoni che continuano a non ricordare bene, come se la morte di un commilitone in una circostanza simile fosse un evento qualsiasi della vita e non qualcosa che ti segna e che ti permette di fissare a mente per bene tante cose e tanti dettagli di quel periodo. Li senti affermare che non ricordano neanche le cose più semplici, come alcuni particolari di un luogo nel quale hanno vissuto tutti i giorni per 10 mesi. Ascoltando questi testimoni, senza voler dubitare della buona fede di ciascuno, si percepisce però un alone misterioso, qualcosa che leggi nei loro movimenti, negli sguardi distolti, nel tremolio della voce, una sorta di paura, di incertezza.
Qualcuno sa e non deve dire o non vuol farlo. Qualcuno ha visto o sentito, ma per chissà quale patto o convenienza preferisce non liberarsi del peso di una vicenda tragica. Fuori dai lavori della Commissione, si leggono i post sul web di chi ritiene che tutto ciò non serva a molto, che chi non ha parlato non lo farà certo adesso, che se ne infischierà del fatto di avere figli, che continuerà a guardarli negli occhi tenendo ben nascosto il peso della propria coscienza. Eppure queste audizioni, che vi invitiamo ad ascoltare e guardare sul sito della Camera (clicca qui), hanno invece rivelato nuovi elementi e disegnato uno scenario della caserma Gamerra e dell’eroica brigata Folgore molto diverso da come ci era stato fino ad ora mostrato dai militari e dal loro spirito di difesa del loro corpo di appartenenza.
Abbiamo ascoltato confessioni e conferme sul fatto che in caserma girasse droga, che vi fosse anche chi spacciava, che si verificassero terribili atti di nonnismo, generalmente tollerati dai superiori o, comunque, non controllati o scoraggiati a dovere. Prima erano supposizioni dall’esterno o derivanti dalla lettura di fatti denunciati e testimonianze. Ora sono stati ammessi, in vario modo, da chi gestiva quel reparto e quelle caserme, oltre che dagli stessi militari ascoltati. Abbiamo scoperto, con grande sorpresa, che in una caserma che si proponeva come il regno dell’ordine e della disciplina, chiunque poteva entrare e uscire senza troppi controlli, che si poteva saltare un contrappello senza problemi e senza che ti venissero a cercare o chiederti conto della tua assenza. Insomma, la ferrea ed eroica disciplina della Folgore che tanto ancora eccita i suoi componenti, in realtà, era minore di quella di una scapestrata classe di adolescenti al suono della campanella.
L’unica verità che emerge, quindi, non dalle nostre valutazioni, bensì dalle parole degli ex militari, di primo livello o semplici, in forza alla Gamerra e al “regno Folgore” alla fine degli anni ‘90, è una sorta di Sturmtruppen di ragazzotti un po’ esaltati e un po’ violenti, capaci di atti disgustosi come la “Comunione” (consistente nel far bere alla recluta un miscuglio di urine e altre sostanze organiche umane), consumatori e venditori di droghe, liberi di uscire e non tornare, di agire senza regole ferree né controlli, con dei superiori alquanto superficiali e distratti, incapaci di andare oltre le forme e le consuetudini e di gestire in maniera corretta la situazione, con decoro e legalità, tutelando chi veniva affidato alle loro responsabilità.
Questo è il quadro che ne emerge. Un inferno nel quale le madri erano costrette a lasciar andare i propri figli, credendo che lo Stato fosse capace di restituirglieli sani, maturi, senza traumi psicologici (la letteratura del nonnismo in materia è copiosa) e soprattutto vivi. Che non se la prendano allora, i militari e i vertici di questo corpo dell’esercito né quelli della Gamerra di Pisa, passati e presenti. Che non si offendano o si risentano con chi scrive queste parole che disegnano una tale fisionomia del loro reparto e della loro struttura, perché questa non è altro che la semplice e fedele descrizione tratta dalle parole e dalle testimonianze dei militari ascoltati in Commissione parlamentare. Se volete smentirla, avete solo una possibilità: dire la verità o pretendere insieme a noi che venga detta. Perché, di certo, qualcuno di loro la conosce e la nasconde da 17 anni. Una cosa tutt’altro che onorevole ed eroica.
Massimiliano Perna -ilmegafono.org
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