Non chiamatela emergenza, perché è offensivo. La violenza sulle donne non è un’emergenza, ma un problema sociale di lunga data che si continua a non voler affrontare politicamente, a non voler trattare come priorità assoluta. Ci si limita a contare le vittime, a stringere gli occhi e il cuore in una smorfia ogni volta che la cronaca ci racconta i particolari della crudeltà, il numero delle lame, dei pugni o dei proiettili finiti sulla pelle di donne che hanno fatto il solo errore di fidarsi. Ancora una volta. L’ultima volta. Poi, voltata la pagina di un giornale o finito il telegiornale, il sangue si dissolve e l’opinione pubblica torna alla quotidianità, fino al prossimo caso, fino alla prossima vittima. Certo, qualcosa si è fatto in questi anni, ma non basta, continua a non essere sufficiente.
Perché non è solo una questione legislativa, sebbene sarebbe necessario un inasprimento delle misure preventive e delle pene, magari con la certezza (al momento utopica) di una loro piena applicazione, ma è anche una questione culturale che ci chiama in causa tutti, come società, come uomini, donne, cittadini. È impensabile ammettere che, ogni anno, si faccia la conta dei morti, a cui si aggiunge la ben più cospicua cifra di donne violate, fisicamente e psicologicamente. Non è ammissibile, oltre a essere ipocrita, lanciare strali contro quei contesti culturali considerati arretrati e poi disinteressarsi di quello che avviene nel nostro contesto, dove la donna ha lottato e dovrebbe aver raggiunto una condizione di parità. Sappiamo benissimo che così non è, perché sono ancora troppe le prigioni costruite attorno alle donne, prigioni anche culturali che comprendono un vocabolario inaccettabile di condanna e di rifiuto della libertà della donna, della sua autonomia, del suo pieno arbitrio.
Allora, per una volta, fermiamoci un attimo per capire davvero quale direzione prendere. Sicuramente, per far fronte nell’immediato al problema, servono leggi e fondi per realizzare centri statali che possano essere rifugio certo per le donne che vogliono affrancarsi da disumane condizioni familiari o di relazione. Non bastano i centri antiviolenza gestiti dalle associazioni o dai volontari, che spesso possono garantire una tutela limitata.
Servono centri nei quali una donna possa trovare tutto quel che serve a difendersi: non solo l’assistenza legale e l’accompagnamento alla denuncia alle forze di polizia, ma anche assistenza economica e un posto letto protetto, per evitare di dover tornare a casa o in case di amici o parenti nelle quali non si ha alcuna protezione. Cosa che manca nella maggior parte dei centri antiviolenza e sono anni che si chiede ai governi di intervenire. Inutilmente. Poi ci sarebbe un altro aspetto fondamentale: l’educazione al rispetto, che dovrebbe essere un ambito nel quale investire realmente, politicamente, con i ministeri, le istituzioni, con programmi obbligatori per tutti, a partire dalle scuole, sin da quelle dell’istruzione primaria.
A ciò deve aggiungersi una rimodulazione del linguaggio, perché non è positivo assistere, nei media e soprattutto in tv, a certe parole, o peggio a epiteti, atteggiamenti sbagliati e oltraggiosi che però vengono ormai fatti passare e accettati come battute, qualcosa magari da salutare con una risatina. Forse non ci si rende conto, ma far passare per accettati, specialmente in contesti frivoli, concetti profondamente offensivi, significa svuotarli del peso negativo che dovrebbero avere, significa renderli altrettanto frivoli soprattutto nella percezione dei più giovani. In tal senso, dovremmo anche evitare, dinnanzi a un omicidio, di tirare in ballo concetti come amore, sentimenti, stati depressivi dei carnefici e così via, perché non c’entrano nulla.
La violenza maschile su una donna è qualcosa che deriva esclusivamente dalla perversa logica del possesso che è insita nella maleducata cultura maschilista, nell’infimo valore che si dà alla donna stessa e alla sua libertà di scelta. È una violenza consapevole che alberga nella rabbia di non essere più il proprietario di colei che si vuole rendere vittima, di non poter avere più quel “diritto” all’esercizio di schiavitù, quella esclusiva che si ritiene dovuta per una sorta di sigillo di superiorità maschile. E non si tiri in ballo la depressione, perché quella è solo l’arma vittimistica con la quale si prepara la trappola. Ed è bene che le donne lo sappiano, lo capiscano.
Non bisogna fidarsi. Una volta che una storia finisce, evitate di salire in macchina con chi non si rassegna, evitate di credere al loro atteggiamento dimesso, non fidatevi, non andate a casa loro perché dovete riprendervi le vostre cose o perché vi hanno chiesto di parlarvi ancora una volta e vi hanno promesso calma. Evitate di rivederli, soprattutto se vi hanno già mostrato aggressività, solo perché questa volta si stanno mostrando calmi e dolci e vi chiedono di perdonarli. Un uomo che vi rispetta, non vi aggredirebbe mai, non vi alzerebbe mai una mano nemmeno in preda alla rabbia. Non giustificateli, non sentitevi in colpa per le loro ossessive sofferenze. Se vogliono parlarvi, al massimo concedete una chiacchierata al telefono, ma se sbagliano o urlano o insultano chiudete e non rispondete più nemmeno a quello.
Denunciate, avvisate, piuttosto non uscite mai da sole. Ai vostri amici o familiari raccontate qualsiasi stranezza. E anzi se avete un amico che possa intimorire pesantemente il vostro persecutore, fatelo intervenire. Non sarà civile, ma può avere la sua efficacia. Non è facile, si sa, perché a volte subentrano sensi di colpa o pena o magari si pensa che l’uomo che avete amato non potrebbe mai essere in grado di farvi del male: beh, la realtà dimostra che invece può farlo eccome. E allora meglio prendere tutte le precauzioni possibili, visto che lo Stato ancora non riesce a fare fino in fondo il proprio dovere. Perché la priorità deve essere quella di salvarsi la vita.
Un’ultima cosa: i vicini, i familiari, gli amici degli assassini, che assistono a certe scene, che ricevono messaggi gravi e allarmanti, che sentono pronunciare certe frasi assurde e preoccupanti, forse dovrebbero cominciare a segnalare, ad avvisare, a vigilare, a intervenire piuttosto che dire poi, come è avvenuto di recente, “non potevo mai pensare che lo avrebbe fatto”. Perché essere meno superficiali e ingenui a volte potrebbe salvare una vita. O perfino due.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
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