Il nostro è un Paese davvero particolare che racchiude in sé fortissimi controsensi: capace di dare i natali a “uomini” come Totò Riina o Bernardo Provenzano, ma anche a Uomini come Giovanni Falcone e Paolo Borsellino; uno Stato in grado di offrire grandi segnali di umanità e, al contempo, enormi esempi di indifferenza; uno strano luogo in cui non esistono vie di mezzo ma fortissime spaccature tra bene e male e, purtroppo, il male riesce spesso a predominare. L’Italia dalle mille contraddizioni colpisce ancora. Stavolta, oggetto (o forse vittima) dell’antinomia italiana è Gianluca Maria Calì, un imprenditore, un uomo, un papà che è diventato, suo malgrado, simbolo della lotta al racket.
Ci siamo occupati della sua storia pochi mesi fa (qui) quando, in seguito a delle minacce ai suoi figli nei pressi della scuola milanese che frequentano, alcuni genitori, preoccupati dalla situazione, anziché offrire il proprio sostegno alla coraggiosa famiglia, avevano reagito con proposte “discriminatorie” nei confronti dei piccoli Calì. In quell’occasione, molti furono gli attestati di solidarietà e di riconoscenza nei confronti del titolare della Calicar e della sua famiglia, in molti, inclusi esponenti delle istituzioni, dichiararono di voler star loro vicino, di volerli aiutare. E, in effetti, Calì ha accanto a sé la parte migliore d’Italia, quella che crede nella giustizia e nella legge; molte sono le scuole o le associazioni che lo invitano perché possa raccontare la sua storia nell’ambito di progetti di educazione alla legalità; eppure, a una tale solidarietà della cittadinanza, si contrappone una inqualificabile inerzia delle istituzioni.
Inerzia nel dare esecuzione (nonostante lo scorso febbraio Calì, dopo 5 anni dalle prime denunce, sia stato finalmente riconosciuto vittima di mafia) alle disposizioni della legge 44 del 1999 che sostanzialmente prevede delle misure di tutela per gli imprenditori vittime di estorsione. Una mancata attuazione che, perdurando, di fatto decreterà la necessità per l’imprenditore di dichiarare fallimento. “Purtroppo – ci ha detto Calì – è la macchina burocratica lenta e inesorabile che mi sta uccidendo. Sto morendo, non fisicamente ma civilmente, poiché il fallimento è una morte civile, per mandante mafioso ed esecuzione statale”.
Una situazione che ha del paradossale e che scoraggerebbe chiunque. Eppure, malgrado i problemi, la delusione, il rischio concreto di fallire e la rabbia, Gianluca Calì non si è pentito delle proprie scelte. “Denuncerei lo stesso – ci ha confidato – e non mi pentirò mai di aver fatto il mio dovere; di contro, per quanto possibile, farò in modo che la mia esperienza possa essere utilizzata per evitare che altri possano subire ciò che sto subendo io”. “Dobbiamo capire e far capire – ha aggiunto – che la denuncia, oltre ad essere un dovere morale e civile, deve diventare anche una convenienza economica”.
Da imprenditore, da uomo che conosce bene i meccanismi economici, ha una sua precisa idea di come potrebbero essere incentivati e aiutati gli imprenditori vittime di racket: tramite la concessione dei beni confiscati alle mafie. “Se i beni confiscati – ci ha detto – potessero diventare beni messi a disposizione di chi denuncia, quante diventerebbero le denunce? E quanti i denunciati? Per ora questi beni rappresentano un problema oltre che un pericolo per i comuni. Così, avremmo moltissimi benefici e nessun problema”.
Oltre al profilo meramente economico, se fosse concretamente attuabile, il conferimento dei beni confiscati a imprenditori vittime di mafia sarebbe anche un bel segnale, un modo per far sapere ai mafiosi che, lentamente, anche l’Italia ha deciso da che parte stare. In caso contrario, non saranno solo gli imprenditori onesti e coraggiosi a fallire, il fallimento più fragoroso lo subirà la nostra giustizia.
Anna Serrapelle- ilmegafono.org
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