Viviamo in un’epoca di profondi cambiamenti. Nell’ultimo ventennio tutto è cambiato: dal modo di fare informazione agli assetti economici, persino le tecniche di socializzazione sono profondamente diverse da quelle della scorsa generazione. Quella odierna è una società multimediale, fortemente condizionata da internet, dai social network, perennemente connessa, un mondo in cui tutto è a portata di clic. Inevitabilmente è cambiato anche il modo di delinquere. La mafia non è più (o non è piu soltanto) quella degli attentati sanguinosi. È una mafia più furba, più istruita, più radicata nel tessuto sociale e che si insinua in tantissime attività economiche (spesso insospettabili come per esempio il controllo della filiera agroalimentare); una mafia molto più silenziosa, quasi camaleontica e, proprio per questo, ancor più pericolosa.
Questa metamorfosi della criminalità organizzata ha portato notevoli cambiamenti anche nel mondo dell’antimafia: si è compreso, infatti, che la lotta a un fenomeno così abilmente mimetizzato, così saldamente radicato nella società, non può essere la mera repressione ma richiede interventi di forte rieducazione sociale. Il segnale più forte in tal senso giunge dal Tribunale dei minori di Reggio Calabria, attualmente l’unico in Italia ad aver preso la coraggiosa decisione di allontanare i bambini dai nuclei familiari mafiosi per affidarli a comunità o famiglie nel Nord Italia. Una strada che i giudici di Reggio hanno intrapreso nel 2012 partendo dalla considerazione che la ’ndrangheta è, tra le organizzazioni mafiose, quella più fortemente “familiare”.
L’obiettivo di questi provvedimenti (circa una trentina e tutti nei confronti di adolescenti con problemi con la giustizia) è, come ha dichiarato Roberto Di Bella, il presidente del Tribunale in questione, “interrompere la trasmissione culturale”. In effetti, il mondo della ’ndrangheta è un mondo fortemente ereditario, dove i primogeniti sono “addestrati” sin da piccoli a seguire le orme del padre, mentre spesso le figlie femmine sono obbligate a matrimoni “di interesse” con eredi di altri clan per accrescere il potere e il prestigio della famiglia. Nello spiegare come avvengono questi provvedimenti di allontanamento dei minori, il procuratore capo di Reggio, Federico Cafiero De Raho, ha dichiarato che sono misure che non vengono mai applicate alla leggera, ma che spesso sono inevitabili poiché l’alternativa sarebbe lasciare che “le figure adulte continuino ad addestrarli al crimine”.
Malgrado ci sia chi sostiene che si tratti di intollerabili intromissioni nella vita familiare, in realtà questi provvedimenti stanno dando ottimi risultati, non solo nel recupero degli adolescenti allontanati ma anche nello spingere alcune mogli di mafiosi a decidere di collaborare con la giustizia per salvare i propri figli. Finalizzata al recupero dei minori a rischio è anche una bella realtà di Palermo: “la Casa di Paolo”. Un luogo di speranza e riabilitazione che sorge in via della Vetreria 57, presso i locali della vecchia farmacia della famiglia del giudice Paolo Borsellino, nel cuore di uno dei quartieri più “mafiosi” di Palermo: la Kalsa. Quello stesso quartiere in cui, solo pochi giorni fa, durante le esequie di Antonio Cinà, cognato dei boss Abbate, sono stati esplosi fuochi d’artificio e ci si è stretti ossequiosamente intorno al dolore dei due malviventi. In un quartiere così particolare, la Casa di Paolo sembra quasi un faro nella nebbia.
Qui i ragazzini vengono aiutati a studiare e non mancano festicciole o altre attività ludiche, il tutto volto alla rieducazione degli adulti di domani nella speranza che, come una volta ebbe a dire il giudice Borsellino, «se i giovani oggi cominciano a crescere e a diventare adulti, non trovando naturale dare alla mafia questo consenso e ritenere che con essa si possa vivere… non sarà possibile per le organizzazioni mafiose, quando saranno questi giovani a regolare la società, trovare quel consenso che purtroppo la mia generazione diede e dà in misura notevolissima». Parlando di antimafia del nuovo millennio dobbiamo parlare anche di NOma, un’applicazione per smartphone nata da un’idea dell’associazione culturale “Sulle nostre gambe” e divenuta scaricabile, gratuitamente, dallo scorso 5 febbraio.
“Negli anni Ottanta – ha spiegato Pierfrancesco Diliberto (Pif), uno dei fondatori dell’associazione – sapevamo tutto di Totò Riina e nulla di Rocco Chinnici. Era incredibile, uscivamo da Palermo e ci vergognavamo”. “Nell’attesa di mettere in piedi un vero museo – ha continuato Pif – abbiamo pensato che in fondo in parte già esistesse: è fuori, nelle vie della città, che andavano messe insieme attraverso un’app”. L’applicazione, oltre ad essere certamente un’idea al passo con i tempi, è molto utile poiché non si limita a raccontare le principali storie di lotta alla mafia, ma ha anche una sezione dedicata al consumo critico in cui sono raccolti, per categoria, gli esercenti commerciali che aderiscono ad AddioPizzo, la nota associazione per la lotta al racket. Eppure, nonostante questo intenso lavoro di sensibilizzazione, di rieducazione antimafiosa, i giovani siciliani, o almeno una parte di loro, sono ancora molto “spaventati” o peggio “rassegnati” rispetto alla presenza mafiosa sul territorio.
Secondo uno studio condotto dal centro studi Pio La Torre (che ha coinvolto circa 400 giovani siciliani), il 39% degli studenti intervistati ritiene la mafia più forte dello Stato e solo il 16% pensa che abbiano lo stesso potere. Inoltre, più della metà dei giovani ha ammesso di sentire concretamente la presenza della mafia nella propria città. Dei risultati non proprio esaltanti, eppure gli importanti segnali di cambiamento sono sempre più frequenti. Come scordare per esempio i cori entusiastici che, nel 2009, i passanti dedicarono agli uomini della Catturandi in occasione dell’arresto di Mimmo Raccuglia e, più recentemente, quello che è accaduto a San Lorenzo, un quartiere palermitano fortemente condizionato dall’egemonia mafiosa. Qui, lo scorso gennaio, i titolari di una pizzeria non solo si sono ribellati a un tentativo di estorsione ma, attendendo l’intervento della polizia, aiutati da clienti e conoscenti, hanno accerchiato la macchina dei due mafiosi per non permettergli di fuggire.
La sensazione è che, nonostante ci sia ancora molto da fare, molto da imparare e molte paure da scardinare, questa antimafia del nuovo millennio darà grandi risultati e magari la prossima generazione (o quella successiva) sarà quella del cambiamento: una generazione non più rassegnata né spaventata.
Anna Serrapelle- ilmegafono.org
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