La notte del 13 novembre scorso, quando ha cominciato a circolare la prima pagina di Libero, con il titolo in apertura del direttore Maurizio Belpietro (“Bastardi Islamici”), mi è venuto in mente il grande Pippo Fava, il suo concetto etico del giornalismo. Chissà se il direttore di Libero lo ha mai letto e soprattutto chissà se ha una minima idea di chi fosse Giuseppe Fava. Non mi sono dato risposta, ma in compenso, dopo un attimo di veleno, ho cominciato a spostare la mia attenzione altrove. Non più a Libero, al suo direttore, al suo editore, tutta gente che ormai conosciamo bene: il mio pensiero è andato piuttosto a chi dovrebbe impedire che certi personaggi possano avere libertà di azione e di infamia attraverso le colonne di un giornale.
L’Ordine dei giornalisti ha assistito con una certa timidezza alla palese violazione delle regole deontologiche fondamentali della nostra professione, le stesse che ogni collega dovrebbe sempre rispettare e soprattutto conoscere per non incorrere nelle sanzioni previste, che vanno dall’ammonimento alla radiazione. L’Ordine lombardo avrebbe chiesto (anche se attendiamo ancora un atto ufficiale) al Consiglio territoriale di disciplina di aprire un procedimento per valutare la violazione delle norme deontologiche da parte di Libero. Valutare. Potrei scommetterci che alla fine, quando l’attenzione mediatica inevitabilmente scemerà, non succederà nulla e Belpietro rimarrà al suo posto. A quel punto, in compenso, potremo scrivere titoli e articoli nei quali definire Belpietro un “bastardo giornalista”, nel senso di figlio illegittimo del giornalismo, senza incorrere in sanzioni o querele, dal momento che è questa la linea difensiva scelta dallo stesso direttore di Libero.
Egli, infatti, ha affermato che il termine “bastardo” in italiano vuol dire figlio illegittimo e che quindi quel titolo si riferiva non a tutti i musulmani ma ai terroristi, ossia a quelli che illegittimamente si rifanno alla religione islamica. Motivazione di cui l’ordine purtroppo dovrà tener conto, anche se ovviamente è palesemente falsa e furba. Credo che basterà a salvare Libero e il suo direttore, perché in Italia, dentro questo grande e inutile contenitore burocratico, i furbi se la passano sempre liscia. Persino un titolo offensivo, volgare, ignobile come quello scelto da Belpietro, che è equiparabile a un colpo di pistola in faccia alla memoria di tutte quelle donne e quegli uomini di religione musulmana uccisi dall’IS e dalle altre formazioni terroristiche in Siria, Libano, Iraq, a Parigi, in Nigeria, ha bisogno di una “valutazione”.
Le regole sono regole, dice il presidente dell’Ordine nazionale, Enzo Iacopino, le procedure sono queste e non ci sono altre strade, non è prevista la radiazione diretta. Le regole. Proprio così. E le sanzioni? Sono solo misteriose creature che compaiono nei manuali e nelle carte o esistono davvero? Possiamo realmente ammettere che un giornalista che violi in maniera così evidente alcuni i principi contenuti nella Carta dei doveri o nella Carta di Roma abbia la possibilità di essere valutato, di poter addurre scuse e spiegazioni palesemente artificiose e false? Non è certo solo Libero il problema, è ovvio: i nomi di testate, programmi tv, giornalisti e conduttori li sappiamo tutti. E sono tutti al loro posto. Ma allora, ci si chiede, qual è il senso dell’esistenza dell’Ordine dei giornalisti? A parte richiedere il pagamento di tasse, l’obbligatorietà dell’INPGI anche per chi, da precario, ha redditi bassissimi da attività giornalistica (e i contributi che versa non li vedrà mai tornare come pensione), a parte organizzare corsi inutili nei quali si perde solo tempo e anche denaro (nel caso di quelli a pagamento), a parte richiedere, pena sanzioni, la PEC obbligatoria: a cosa serve questo ordine professionale?
Come si può accettare che per le violazioni amministrative, come il mancato possesso della casella di Posta certificata o del numero richiesto di crediti formativi, si minaccino sanzioni immediate, mentre per una cosa gravissima come lo squallido titolo di Libero si debbano seguire procedure che, si è già capito, non porteranno a niente? Come si può tollerare che gente come Riccardo Orioles abbia rischiato la radiazione per il mancato pagamento delle quote associative (per problemi economici non certo per negligenza) e poi Belpietro sia lì a deridere l’opinione pubblica con improvvisate lezioni di semantica su una parola che è stata chiaramente usata a scopo offensivo? Non prendiamoci in giro con la storiella delle procedure e della necessità di attenervisi. Perché a volte sarebbe sufficiente anche una presa di posizione, netta e chiara.
L’Odg nazionale ha preferito limitarsi a un post del presidente sulla sua pagina Facebook, nel quale non si menziona Libero, si esprime una generale indignazione, si sottolinea l’assenza di poteri disciplinari, e nient’altro. Nessuna presa di posizione. Eppure, caro Presidente, ci sono casi nei quali, al di là dei poteri, non si può essere super partes se si crede ancora nel senso profondo di questa professione che ormai ha perso completamente credibilità. Anche per colpa di chi in questi anni, nei ruoli di vertice, ha prodotto i suoi sforzi in operazioni riformatrici non prioritarie. Appare veramente paradossale che a difendere l’onorabilità della categoria non sia l’Odg, con i suoi cavilli fumosi e la sua inerzia patologica, ma quei giornalisti che hanno denunciato Belpietro e hanno promosso una petizione che, mentre scrivo, ha superato le 100mila firme, a dimostrazione della frattura profonda tra la realtà, i giornalisti sul campo e il nostro ordine professionale, colpevolmente assente.
Stiamo perdendo l’occasione di creare un precedente positivo, che serva da lezione, che educhi anche gli altri che utilizzano la professione per costruire odio, tensione, disinformazione. Siamo in bassa classifica per la libertà e la qualità della stampa, ma l’Odg rimane attaccato alle procedure e soprattutto continua ancora, esclusivamente per un vezzo di casta, a mantenersi in vita, quando invece sarebbe molto più logica e onesta la sua abolizione, cosa che tra l’altro ci metterebbe in linea con i paesi più avanzati. Nessun tesserino (peraltro inutile), nessuna tassa, nessun corso, associazioni di giornalisti e mercato libero.
Un unico riferimento: l’etica. Quella di cui parlava Pippo Fava, a cui lascio la conclusione: “Io ho un concetto etico del giornalismo. Ritengo infatti che in una società democratica e libera quale dovrebbe essere quella italiana, il giornalismo rappresenti la forza essenziale della società. Un giornalismo fatto di verità impedisce molte corruzioni, frena la violenza della criminalità, accelera le opere pubbliche indispensabili, pretende il funzionamento dei servizi sociali, tiene continuamente in allerta le forze dell’ordine, sollecita la costante attenzione della giustizia, impone ai politici il buon governo”.
Massimiliano Perna –ilmegafono.org
Commenti recenti